Roberto Saviano va a giudizio per avere denunciato con parole dure le posizioni di Giorgia Meloni su immigrazione e morti in mare. Criminalizzare il dissenso è tipico dei regimi autoritari e “democrature”

In nessuna democrazia piena un capo di governo porta in tribunale le voci intellettuali per criminalizzarne la critica. Succede solo nelle cosiddette democrature, i regimi nei quali le spinte autoritarie sono prevalenti anche su apparenti regole democratiche. Non c’è bisogno di arrivare a Polonia e Ungheria: per studiosi del calibro di Giovanni Sartori, per parlare di democratura era già sufficiente introdurre artifizi come le liste bloccate o il premio di maggioranza, che creavano - con la scusa della governabilità - le condizioni di quella che lui definiva “dittatura della maggioranza”. L’esito di quel processo, oltre allo strapotere dell’esecutivo e allo svuotamento dei meccanismi di controllo che nei sistemi sani sono alla base della dialettica politica, è soprattutto pedagogico: porta la cittadinanza a dimenticare che il dissenso è parte integrante del sistema democratico e la spinge a guardare la critica come una minaccia alla stabilità del Paese.

 

Chi contesta - che sia uno scrittore in un editoriale, una studentessa in un’occupazione scolastica o dei lavoratori in sciopero - è dipinto come un violento e un odiatore, ma anche un nemico della democrazia, giacché si sostiene che il suo dissenso, mirando a mettere in difficoltà chi governa, vada contro l’esito delle urne. Nella retorica della democratura, il dissenso verso il potente diventa dissenso verso chi lo ha votato e le persone che esprimono la critica passano dallo status di guardianə del potere a quello di nemici del popolo. In Italia quel passaggio è stato compiuto da decenni, durante i quali la criminalizzazione di chi critica è diventata normale.

 

Cominciò Berlusconi, presentando la sua politica non come proposta di governo, ma come progetto d’amore che avrebbe trionfato sempre «sull’invidia e sull’odio», cioè i nomi che lui dava al dissenso. Dal cosiddetto editto bulgaro, che creò le condizioni per la cacciata dei giornalisti ostili dalla tv pubblica, fino alla sanguinosa repressione del dissenso di Genova nel 2001, per vent’anni si gettarono le basi per additare ogni antagonista come antipaticə odiatorə seriale, veicolo di negatività e di narrazioni distruttive per il paese. La prassi criminalizzante dal berlusconismo è passata presto ai suoi sottoprodotti politici. L’ultimo presidente del Consiglio a mutuarla è stato Matteo Renzi, con la campagna a suon di minacce legali contro giornalisti, scrittori e persino utenti di Twitter ricordata con il bellicoso hashtag di #colposucolpo.

 

Intendiamoci: non è che la classe politica italiana ce l’abbia col dissenso più di altre. L’anomalia qui è che l’assenza di una reale opposizione alle politiche di destra costringe spesso chiunque abbia una visibilità mediatica derivata dal suo mestiere a fare la supplenza morale di una sinistra partitica che da anni non c’è o non rileva. Per questo l’opposizione oggi sembrano farla, anche loro malgrado, le persone dotate di visibilità mediatica, che siano scrittorə, fumettistə, cantanti, influencer, sportivə e persino stilistə. Le loro opinioni critiche, complice un giornalismo a caccia di click, vengono però raccontate come attacchi, affronti, incursioni violente e anomale degne di un’asfaltata, generando l’equivoco che ruolo politico e visibilità mediatica siano poteri equivalenti. Ma prendere decisioni e criticarle non sono due atti paritari. La critica də cittadinə, anche di quelli famosə, si regge solo sulla libertà di parola e i suoi limiti, mentre le decisioni politiche sono agite col supporto di un sistema che offre gli strumenti economici e di garanzia dello Stato, che sono molto più ampi. Per portare un alto politico a processo occorre un’autorizzazione parlamentare che escluda il sospetto di persecuzione, ma non c’è alcuna legge che impedisca agli stessi politici di ricorrere alla magistratura, con cospicue risorse pubbliche, per perseguire chi critica le loro azioni.

 

Oggi, altro governo e altra presidente del Consiglio, tocca a Roberto Saviano rispondere in tribunale per aver agito quella critica in modo forte e in un contesto preciso: davanti al video di una madre che perde in un naufragio il suo bambino di sei mesi, lo scrittore ha detto «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: “taxi del mare” “crociere”. Ma viene solo da dire “bastardi, come avete potuto?” A Meloni, a Salvini… “Come è stato possibile?”». Per questa frase Giorgia Meloni lo ha querelato, eppure quello di Saviano è un riferimento per niente casuale. L’operato di Salvini sull’immigrazione quando era ministro dell’Interno è stato talmente sospettabile di abuso da far sì che ancora oggi debba risponderne nei tribunali e i suoi atti rumorosi hanno fatto passare in sordina le posizioni di Meloni sugli stessi temi, che però non erano meno violente.

 

Trascurando la famosa frase «affondate i barconi», non meno grave è infatti quello che la neo presidente del Consiglio disse nel febbraio del 2015, incalzata a Ballarò dall’allora sottosegretario alla presidenza dei ministri Sandro Gozi, che a proposito dei migranti le chiedeva incredulo: «Ma come li rimandi indietro? Li fai affogare tutti? Li ammazzi tutti?». «Sì, esattamente!» - rispondeva lei con furia - «Difendi il popolo che rappresenti». Chi mi chiede se mi piacerebbe sentirmi definire bastarda finge di non sapere che io non ricopro cariche istituzionali. Le mie opinioni non trattengono le navi umanitarie nei porti mentre persone indifese affogano senza soccorso. Le mie opinioni non dettano la linea politica di un partito che chiede l’affondamento dei mezzi di salvataggio, né hanno il potere di finanziare mercenari che riportano i disperati nei lager libici di cui ormai chiunque in Europa conosce l’orrore. Dare della bastarda a un’intellettuale che fa l’analisi di questi fatti è un insulto esattamente come lo sarebbe verso qualunque cittadinə. Dare del bastardo a chi ha usato la sua carica di Stato per contribuire a rendere il Mediterraneo la più grande fossa comune del mondo rientra invece nella definizione di critica politica. È una parola dura? Certo che lo è. Ma se pensiamo che sia più dura la vista di un bambino di sei mesi che muore in mare per le scelte politiche di tutta Europa, forse dovremmo fare in modo che il 15 di novembre Roberto Saviano in quel tribunale non ci vada da solo.