Si muovono nelle stanze del potere, nei loghi in cui mancano i cittadini sempre più distanti. E servirebbe invece riallaciare gli elastici del dialogo tra mondi

Quanto sono sordi i padroni del vuoto

In “Città Sola,” Olivia Laing scriveva di come Valerie Solanas fosse morta abdicando al linguaggio. Quello di non abdicare, di non rinunciare volontariamente, al linguaggio è mantra necessario per chiunque voglia esistere nel mondo fuori (e in alcune parti di sé). Pare che la rinuncia a costruire ponti, a capirsi, ci abbrutisca, ci faccia morir soli, e questo sembra bestiale ai più, perché siamo, per l’appunto, animali sociali; o comunque è tanto tempo che ce ne convinciamo. Con lo scopo di non abdicare al linguaggio, bisogna mediare continuamente tutto ciò che si prova. Movimento che, se uno deve immaginarselo, è bene che si figuri un elastico che va teso all’estremo, senza essere mai spezzato. Mi piace pensare che lo sforzo di stare al mondo sia quello di miliardi di elastici che comunicano tra di loro; che devono mediare pur di non ripudiare l’altro.

 

Affinché la nostra realtà abbia un significato collettivo, dobbiamo estenderci verso fuori senza però spezzarci. Spezzarci, nei termini dell’elastico, credo voglia dire corromperci. Perdere chi siamo, anche se non ci sentiamo nulla di che, sarebbe un gran peccato. La sfida dunque è quella di includere l’altro senza corromperci. Soprattutto quando la rabbia ci sommerge, quando il nostro posto nel mondo viene ridiscusso con distrazione e superficialità, lo sforzo dell’elastico è gigantesco, la pressione interna nel volere abdicare, nel distruggere tutto, è altissima.

 

Abbandonare ogni forma di dialogo non significa semplicemente dare adito alla rabbia, anzi la rabbia è la legittima reazione violenta ad un sistema violento che non ha mai lasciato spazio reale all’altro, che non chiede al padrone né il bastone, né la carota. Già con persone a noi affini, che siano familiari o cari, lo sforzo verso l’altro non è mai banale. Quando però alla domanda di comprensione, s’aggiunge quella di giustizia, spezzarci è facile quanto abdicare.

 

Questi giorni, queste settimane, c’è nell’aria una tensione muta, tra mondi incomunicabili. Ad ognuno appartiene uno squarcio della propria realtà, il resto sembra incomprensibile, di un vuoto assordante. All’appello per il patto sociale, mancan tutti. Firmano i reggenti, mentre gli occupanti reali rimuginano nel fumo dei lacrimogeni. Nei luoghi dove si compie il rito del potere, mancano le vittime della biopolitica e soprattutto mancano i sopravvissuti, mentre invece, in quelle stanze, si tirano le fila del vuoto. Questo rito continuo si ripete continuamente e senza consenso, lega ogni nuova creatura ad un sistema complessissimo e spietato, oltre che dedito al collasso. Il rapporto di ogni cittadino col potere è talmente astratto e distante che credo possa essere compreso solo in forma di personalissima visione epifanica, rispetto a cosa del potere ci opprime, cosa ci parla di più.

 

Io, per esempio, ho fissa l’immagine di uomini e donne che danzano sul posto disegnando dei cerchi con le mani alte che annaspano l’aria, come potrebbe fare una lepre, e inseguono le fila invisibili con smania meticolosa, pensando di reggere il mondo intero, mentre il mondo invece va avanti, distratto, violento. Li ho soprannominati appunto “i padroni del vuoto” e rappresentano il sistema vigente e tutti i suoi organi complessi e spontanei le cui reazioni, appunto violente e sbadate, sono qualcosa a cui si sottoscrive per il solo fatto d’esser nati. Le braccia di quest’organo però non arrivano (e forse non possono arrivare) ovunque, che sia per mancanza di risorse o di sforzi.

 

Nel vuoto istituzionale tutto accade: un uomo in fiamme, le mafie stesse, questa o quell’altra ingiustizia o diseguaglianza. Queste però sono solo le sue distorsioni, le sue esternalità. Ecco, lo spazio infinito che ci ho messo a incastrare questi due periodi che si son seguiti fa comprendere quanto solleticante ed eccitante sia il vuoto, lo spazio marginale. Lo si potrebbe, per esempio, occupare? 

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