La sera di un 23 maggio a Palermo di circa 10 anni fa, andai al bar Recupero con alcuni ragazzi conosciuti alla manifestazione in ricordo di Giovanni Falcone. Mentre stavo addentando un’arancina alla carne, dopo aver ragionato a lungo se in realtà non la volessi al burro, uno di loro mi chiese: «Ci racconti cosa hai provato il giorno di Capaci?». Se non ho ingoiato subito, voleva dire che la cosa mi aveva colpito. «Ma perché quanti anni avevi tu nel 1992?». Mi rispose quasi con un senso di colpa: «Tre anni». Anche gli altri risposero che anche loro erano molto piccoli.
Anni dopo presentai il mio secondo film. E durante l’intervista, Miriam Leone, la protagonista, quando un giornalista le chiese della strage, rispose che allora aveva solo otto anni ma ricordava. Pensai: Miriam Leone, che nella mia testa sarebbe potuta essere la mia compagna di vita, persino lei mi avrebbe potuto fare la stessa domanda dei ragazzi del bar. Quattro anni dopo è nata mia figlia. Per evitare fraintendimenti, non l’ho fatta con Miriam Leone.
L’anno scorso, a nemmeno un anno di età, l’ho portata al suo primo 23 maggio a Capaci. Ed è stato lì che ho pensato: e adesso? Come farò a raccontare cosa abbiamo provato trent’anni fa a chi non c’era? Come faccio a raccontare del 1992 a una nata 28 anni dopo? Come spiegare a mia figlia che se fossi nato in una città normale, il 1992 lo avrei ricordato come il mio ultimo anno scolastico ma, essendo palermitano, fu solo una gioia tra due momenti drammatici? Come dirle dell’incazzatura e delle lacrime dentro la chiesa di san Domenico il 25 maggio? Come raccontarle che nel tempo impiegato dai detriti nel saltare in aria e cadere per terra, noi palermitani capimmo che la storiella, «la mafia non ci riguarda», non funzionava più? Che quell’attentato rese chiaro, anche ad un ventenne ingenuo come me, chi erano i buoni e chi i cattivi? Come spiegare lo scoramento nel capire come era andata anche se ti raccontavano un’altra storia? Come descrivere l’improvvisa consapevolezza che la mafia aveva in mano la nostra vita? Che per me l’unica ancora di salvezza era un giornale satirico, “Cuore”?
Come dirle della sensazione di soffocamento di fronte alla parte più importante della classe politica siciliana collusa ma intoccabile? E che è una storia attuale? Visto che a Palermo alle prossime elezioni c’è un candidato sindaco, bravissima persona, ma appoggiato da un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e da un altro condannato per favoreggiamento aggravato alla mafia. E che l’unica cosa che sa dire è: «Ha scontato il proprio debito con la giustizia».
Come faccio a far capire che il senso di quelle stragi lo dobbiamo dare noi? Che ci tocca raccontare e non stancarci? Perché come in tutte le tragedie i protagonisti lentamente andranno via. Come faccio a far capire che le nostre sofferenze, i sacrifici di chi è morto o sopravvissuto sono fondamentali per poter un giorno andare in un bar di Palermo, non per parlare di mafia, ma per chiarire quale arancina è più buona: alla carne o al burro?