Analisi
No, non c’è una sola causa. E no, non è tutta colpa del reddito di cittadinanza. La questione è più complessa e riguarda cambiamenti epocali a cui il settore pubblico e privato stanno reagendo con estrema lentezza
di Carlo Mochi Sismondi
Parlare di una sola causa è fuorviante, sia che si parli di Nord-Sud; sia che si parli di reddito di cittadinanza o anche di valutazione sociale del lavoro pubblico, le motivazioni che portano all'abbandono del posto di lavoro stabile sono molteplici e la risposta non può essere univoca.
Ci sono tre aspetti da valutare.
Primo. Siamo di fronte a un cambiamento epocale della stessa collocazione del lavoro nella vita delle persone. Un cambio di prospettiva che ha fortemente cambiato la domanda di lavoro, specie se qualificato, da più punti di vista: la necessità di un maggiore riconoscimento e quindi anche di condizioni economiche più soddisfacenti; la voglia di avere un posto in cui crescere; la necessità di conciliare vita privata e lavoro in un nuovo equilibrio che la pandemia ci ha messo in condizione di apprezzare e ritenere necessario. La maggiore difficoltà ad accettare un posto di lavoro che non garantisce quello che la Costituzione italiana prescrive all’art.36, ossia “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. E questa esistenza libera e dignitose per sé e la propria famiglia non è garantita a Milano dalle 1.300 euro mensili di un primo stipendio da funzionario laureato. Tutto questo ha portato alla cosiddetta great resignation, cioè alle dimissioni volontarie che interessano il 60 per cento delle aziende, riguardano diverse decine di migliaia di posizioni e coinvolgono principalmente le aree dell’informatica e del digitale, la produzione, il marketing e le vendite. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto gli addetti fra i 26 e i 35 anni e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia. Nel pubblico, ha portato a quella difficoltà a reperire candidati per i concorsi, specie per posti al Nord, messa recentemente in evidenza da Enrico Giovannini nella sua audizione. Il ministro infatti ha evidenziato che, soprattutto al Nord è difficile assumere attraverso il concorso pubblico. Del resto, nel bando andato deserto, la richiesta era di laureati in materie tecniche (di cui per altro c'è parecchia richiesta da parte delle imprese), assunti in terza fascia con una retribuzione d'ingresso di 1300 euro al mese. Poco se si considera che in base ai dati Istat il costo della vita al Nord per una famiglia è di 2.600 euro circa, contro i 1.800 euro al Sud.
Secondo. Non altrettanto è cambiata l’offerta di lavoro sia privata, vediamo la great resignation e la difficoltà dell’imprenditoria di trovare personale adeguato, sia pubblica, dove ancora deve farsi strada la pratica dell’employer branding, ossia di promuovere la propria organizzazione come un buon posto di lavoro. Non è cambiata l’offerta di lavoro pubblico nei concorsi, ora digitalizzati, ma sempre a quiz e centrati su nozioni e non su capacità e attitudini. Non è cambiata, almeno per ora, dal punto di vista retributivo. Non è cambiata, se non in poche eccezioni positive, nell’organizzazione del lavoro: ancora molto gerarchica e impostata sulla presenza attorno al capo.
Non è cambiata nella possibilità di crescere professionalmente perché la formazione è ridicolamente poca e centrata non sulla crescita delle persone, ma sull’aggiornamento delle norme. Non è cambiata nella possibilità di crescere all’interno di una organizzazione ancora rigida, in cui le aree formano barriere difficilmente sormontabili. Non è cambiata nella percezione dell’opinione pubblica che vede ancora il pubblico impiego, a meno che non sia dirigenziale, come un ripiego.
Terzo. Eppure, nella Pa qualcosa si muove. Il Pnrr ha focalizzato il lavoro pubblico su grandi missioni del paese aumentando la potenziale motivazione. Il nuovo contratto di lavoro prevede il riconoscimento delle elevate professionalità e infatti 15.000 esperti sono stati assunti nella Pa per il Pnrr, seppure quasi tutti a tempo determinato, ma con una selezione spesso, anche se non sempre, meritocratica. Il Governo, nella persona del suo ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta, ha dichiarato che uno degli obiettivi principali della sua azione è la valorizzazione del capitale umano. Il Presidente dell’Aaran, ossia il capo dell’Agenzia che fa i contratti pubblici, Antonio Naddeo, ha proposto un open day per le Pa, sulla scia di quello che fanno le università.
Per concludere: Esiste uno sfasamento temporale, sia nella Pubblica Amministrazione, sia nel mondo privato, tra cambiamento repentino della domanda di lavoro, rivoluzionata da fattori esogeni (pandemia, calo del potere di acquisto dei salari) ed endogeni (ricerca di un maggiore equilibrio di vita) e cambiamento molto più lento dell’offerta che nel privato continua a proporre precarietà e stipendi anticostituzionali e nel pubblico, in cui deve ancor affermarsi una moderna gestione delle persone, che non sono risorse umane, ma appunto persone, ognuna con propri desideri, propri sogni, proprie qualità. È compito della politica, ma anche di una dirigenza attenta alle persone, accorciare questo elastico, prima che si spezzi.
Carlo Mochi Sismondi è presidente di Forum Pubblica Amministrazione