Analisi
Gli imprenditori si lamentano della mancanza di manodopera e se la prendono con il sussidio. I dati e gli esperti raccontano un’altra realtà. Fatta di scarsi investimenti in tecnologia e formazione e bassa produttività
di Gloria Riva
Mi chiamo Laura, sono laureata. Dopo mille concorsi faccio l’impiegata. È una strofa della canzone “Che fantastica storia è la vita”, vecchia di vent’anni e attualissima perché in Italia il 38 per cento dei laureati è sovra istruito: svolge mansioni di routine e compiti banali rispetto al titolo di studio. Per Antonello Venditti va così la vita, fatta di ostacoli, ma per l’economia italiana l’incapacità delle imprese di occupare nel giusto modo il capitale umano provoca scarsa produttività e, a cascata, danneggia il prodotto interno lordo nazionale.
E di chi sarebbe la colpa? In questi giorni, da Flavio Briatore ad Al Bano (che non trova nessuno disposto a lavorare le sue terre) è partita l’accusa al reddito di cittadinanza. Dicono che i giovani - aiutati dal sussidio pubblico - preferiscono starsene in panciolle anziché sgobbare dieci ore filate sotto al sole. «Per un impresario non è più possibile pubblicare un annuncio a maggio e sperare in una risposta di massa. Il mondo è cambiato», spiega Elena Parpaiola, amministratore delegato di Randstad Italia, agenzia leader nei servizi di ricerca del personale con 300 sedi in Italia, che spiega le mutate priorità dei giovani: «Oltre a una buona retribuzione, cercano garanzie di welfare aziendale e bilanciamento vita-lavoro. Non sono più disposti a lavorare sette giorni su sette. È l’azienda a dover rendere attraente l’opportunità di lavoro e, anziché cercare due persone, dovrebbe assumerne quattro e ridurre i turni», funziona così per lo stabilimento balneare, ma anche per la manifattura, dice il manager: «La carenza di personale non è un fenomeno di quest’anno. Molti imprenditori avveduti ci contattano con mesi di anticipo per costruire un modello di business rispondente alle richieste dei lavoratori. Loro il personale l’hanno trovato». Quindi, non è colpa del reddito di cittadinanza, tanto più che il sostegno al reddito non viene elargito ai giovani, bensì alle famiglie. Le ragioni di un mercato del lavoro ingolfato e inefficiente sono da ricercare nell’incapacità delle imprese di sfruttare al meglio il capitale umano, che però è merce rara.
Già, perché i giovani sono pochi. In trent’anni i ragazzi tra i 20 e i 24 sono diminuiti di due milioni e oggi sono meno di tre milioni. Stesso discorso dai 25 ai 29 anni: sono diminuiti di un milione e mezzo dal 1992 a oggi. A questo si aggiunge la possibilità per i giovani di scegliere lavori diversi dalla stagione in Riviera: «Le opportunità si sono moltiplicate e, per esempio, molti potrebbero scegliere un’esperienza all’estero o dedicarsi al food delivery o alla logistica per l’e-commerce, che garantisce lavori più stabili, meglio pagati e non stagionali», fa notare Andrea Garnero, economista del Lavoro all’Ocse, che sottolinea come il problema non sia solo italiano, ma europeo. «Tuttavia in Italia è strutturale e si allaccia alla bassa produttività delle aziende. Se per la gestione di un bar la scelta dell’imprenditore ricade su un ragazzo che sta ancora frequentando la scuola, anziché su un lavoratore con competenze e titolo di studio adeguato, è chiaro che la qualità del servizio offerto al consumatore non è la priorità. L’imprenditore ha scelto di competere sui prezzi bassi e questo non favorisce la crescita della produttività». Teoricamente, in un mercato del lavoro funzionante, il problema dell’assenza di manodopera si risolverebbe con un aumento dei salari, ma la scarsa produttività e il basso valore aggiunto lo impediscono. «Le resistenze sulle concessioni balneari - e quindi contro la libera concorrenza - e i vantaggi ai vecchi gestori non offrono quello stimolo di competizione che consentirebbe di investire in un modello di business innovativo, che è la principale leva per aumentare la produttività», dice l’economista dell’Ocse.
Non va diversamente negli altri settori: «In Italia la bassa produttività del lavoro mette a rischio la prospettiva di crescita economica a medio e lungo termine», scrive nell’ultimo report sul mercato del lavoro italiano Alvise Lennkh, capo analista di Scope Ratings, agenzia europea di rating. E aggiunge che negli ultimi vent’anni la produttività del lavoro si è deteriorata, stagnando attorno allo zero per cento, mentre nel resto d’Europa è in crescita. Motivo? «Da un lato le competenze dei lavoratori non rispondono alle richieste delle imprese, specialmente nel digital skill. Dall’altro le aziende, all’85 per cento piccole e a conduzione famigliare, non offrono opportunità di formazione interna. C’è il rischio di minare la capacità di crescita del paese nei prossimi venticinque anni», dice Lennkh.
Anche secondo Garnero dell’Ocse «se l’inefficienza nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro fosse destinata a perdurare (e magari a crescere con la transizione verde e digitale), la realizzazione degli ambiziosi piani di investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza sarebbe a rischio». Un problema non da poco conto se si considera che i 122 miliardi del Pnrr italiano andranno rimborsati con gli interessi all’Europa a partire dal 2027. Quindi, entro quella data serve un aumento della produttività delle imprese. Ma da dove si comincia? «Le imprese devono sfruttare meglio il capitale umano», suggerisce l’economista Sergio Scicchitano che snocciola i numeri pubblicati dall’Inapp, Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche: «Il 38 per cento dei laureati è sovra istruito, cioè svolge un lavoro per il quale è richiesto un tasso di istruzione più basso. L’Italia è l’unico paese del G7 in cui la quota dei laureati occupata in mansioni routinarie è maggiore di quella impiegata in compiti ad alto valore aggiunto», dice l’economista, che parla della scarsa attitudine delle imprese italiane a offrire percorsi di formazione sul lavoro.
Per capirci, gli investimenti pubblici in tecnologie 4.0 hanno portato la robotica all’intero di poche aziende e, per altro, non sono seguiti percorsi di formazione per sfruttare al meglio quelle nuove tecnologie. «Al contrario la trasformazione digitale richiede la formazione continua, che in Italia è ad appannaggio di poche grandi aziende», puntualizza Scicchitano. Dal lato dell’offerta di lavoro mancano le professionalità specializzate richieste dalle imprese, specialmente nel settore manifatturiero: «In Italia c’è un alto livello di specializzazione nelle facoltà umanistiche e sociali, meno in facoltà scientifiche e tecniche, che sono le più richieste dalle aziende. Succede anche a causa della bassa propensione delle donne ad intraprende carriere stem (science, technology, engineering, mathematics)», continua l’economista Scicchitano.
Per rispondere alla domanda di personale qualificato delle imprese manifatturiere, il governo punta sugli Its, cioè su corsi post diploma, della durata di due anni, che offrono una formazione tecnica di alto livello in aree tecnologiche avanzate. In Italia esistono 109 istituti, con 723 corsi attivi: l’80 per cento dei diplomati trova lavoro entro un anno. L’Italia investirà 1,5 miliardi del Pnrr per raddoppiare entro il 2026 il numero di frequentanti, portandoli a 42mila diplomati nel quinquennio: un obiettivo che, tuttavia, è inferiore alla domanda di 137mila qualificati professionali ricercati dalle imprese italiane. La fame di professionisti, quindi, non si estinguerà. Così le agenzie interinali stanno cercando di lavorare con le imprese per avviare percorsi di formazione in azienda, come racconta Elena Parpaiola di Randstad: «Siccome i giovani sono pochi e hanno la possibilità di scegliere il lavoro che preferiscono, ma spesso non possiedono le competenze richieste dalle aziende, cerchiamo di convincere gli imprenditori a fare investimenti di lungo periodo, cioè ad avviare percorsi interni che consentano ai giovani di apprendere nuove competenze e di appassionarsi a quel lavoro».
E sempre Randstad sostiene la necessità di una immigrazione di qualità perché una delle sfide maggiori per il paese sarà la capacità di attrarre dall’estero medici, infermieri, informatici, ingegneri, architetti, tecnici e operai specializzati per sostenere la richiesta delle imprese italiane dei prossimi anni. Questo vorrebbe dire mettere in atto una rivoluzione, visto che l’Italia è un esportatore netto di queste figure professionali perché a quelle figure professionali vengono riconosciuti stipendi superiori del 40 per cento da parte di Svizzera, Francia, Germania e Danimarca.
Inoltre, per accedere al mercato del lavoro italiano è necessario vincere alla lotteria del decreto flussi: ogni anno l’Italia apre pochissimi posti per i lavoratori esteri, riservati per lo più a braccianti e badanti. Nulla è previsto per incentivare queste persone a scegliere l’Italia come patria professionale. Solo il ministro del Turismo, il leghista Massimo Garavaglia, ha ventilato la possibilità di aumentare il numero di stranieri che potrebbero entrare in Italia attraverso il decreto flussi, ma solo per offrire la manovalanza a basso costo di cui ristoranti e stabilimenti balneari hanno disperatamente bisogno: secondo il ministro servirebbero 350mila addetti stagionali.
Premesso che il decreto flussi segue le più tradizionali lungaggini burocratiche all’italiana (e quindi si arriverebbe tardi per la stagione turistica alle porte), la strategia non affronta minimamente il problema della scarsa produttività delle imprese italiane. Cinicamente si può però dire che l’ingresso di bassa manodopera straniera aiuta per davvero gli imprenditori del turismo. Se, come dice Paolo Montalti, segretario generale della Filcams Cgil, ogni anno fioccano migliaia di vertenze da parte di lavoratori stagionali - sfruttati da ristoratori e gestori di locali e spiagge, che offrono retribuzioni da tre euro e mezzo l’ora per dieci ore al giorno, sette giorni su sette -, l’ingresso di manodopera straniera risolve alla radice questo problema: infatti gli stranieri sono più facilmente ricattabili e meno propensi a fare causa al titolare.