L'intervento
Mandare i commissari a Caivano è solo propaganda
E lo stesso vale perla stretta securitaria dopo lo stupro di Palermo. Nono sono le risposte al divario. Servono welfare, imprese sociali e la volontà di sottrarrei territori al crimine
No, l’orrore di Caivano non si risolve con tre commissari straordinari. E no, lo stupro collettivo di Palermo non sarà l’ultimo, se l’unica misura presa è inasprire sanzioni e pene verso i minorenni e i loro genitori.
C’è un filo rosso che lega questi due atroci stupri all’omicidio del giovane musicista napoletano da parte di un quattordicenne, per una banale lite legata al parcheggio di un motorino.
In tutti e tre i casi si tratta di derive culturali che esplodono con violenza in luoghi di povertà economica e degrado urbano, culturale e sociale, che si sommano alla cronica assenza di servizi pubblici e presidi sociali. Finché il governo non porrà all’ordine del giorno il tema della povertà, delle disuguaglianze sociali, economiche e di accesso ai servizi, finché lo Stato non sarà in grado di essere presente costantemente in questi luoghi, andando oltre le politiche emergenziali, fatti come quelli di Caivano, Palermo e Napoli continueranno a ripetersi.
Inviare un commissario a Caivano significa dare fiato alla propaganda, anziché intervenire in modo concreto sui problemi. Perché chi vive in quei luoghi sa che «mancanza di uno Stato autorevole» non significa portare l’esercito in quelle strade, bensì tessere e coordinare gli interventi, inserirli in una programmazione strategica per evitare sprechi e sovrapposizioni, per uscire dalla logica dell’azione una tantum e per meglio sfruttare le risorse economiche sul campo, sostenendo ciò che di buono già c’è in quei luoghi.
Perché è bene avere chiaro che la rimozione delle disuguaglianze sociali, economiche e culturali è possibile solo riconoscendo, attivando e coltivando le energie locali, non catapultando una soluzione estemporanea dal centro di Roma in una qualsiasi periferia. Noi del Forum DD lo diciamo basandoci sull’esperienza.
Del Consorzio Goel nella Locride che ha messo insieme decine di soggetti del civismo attivo, del volontariato, dell’università e dell’impresa per costruire un’economia locale che ha saputo proporsi come alternativa a quella clientelare, che costruisce consenso sulla confusione tra diritti e favori e a quella della criminalità organizzata. Della Fondazione di Comunità di Messina che ha saputo trasformare le periferie della «disperanza» in luoghi di rigenerazione sociale e ambientale. O, ancora, delle esperienze di Napoli, al quartiere Sanità come a Porta Capuana, che legano la tutela e la promozione dei diritti delle persone che fanno più fatica con la produzione di cultura e bellezza producendo un intreccio virtuoso in cui si creano possibilità di emancipazione, inclusione, lavori giusti e dignitosi, per chi prima era scarto ed espulso dal mercato del lavoro piegato al mantra onnivoro e ingiusto del modello neoliberista.
Al centro di queste esperienze c’è l’impresa sociale. Oggi più che mai rappresenta un luogo per innovare il welfare e sperimentare nuovi modelli di lavoro nelle comunità e di gestione dei beni comuni e della ricchezza collettiva ma anche per restituire potere al lavoro, che in questi anni, nei processi stressati di flessibilità e smantellamento delle tutele e delle garanzie, è diventato troppo spesso povero, non dignitoso e pericoloso come dimostra il continuo e ingiustificabile susseguirsi di morti sul lavoro.
Ma, per essere davvero all’altezza di tale ruolo, le imprese sociali devono ridefinire il senso e la prospettiva del loro fare: troppe volte le cooperative, schiacciate da politiche di disinvestimento e da forti spinte alla privatizzazione, ma anche da una rincorsa insensata ai tecnicismi o allo scimmiottamento delle imprese profit, hanno finito per scivolare in logiche, dinamiche e modalità molto distanti e in forte contraddizione con quanto raccontiamo nelle narrazioni pubbliche sul mondo del Terzo Settore.
Di questi temi si discute il 13 e il 14 ottobre in due giornate di riflessione a Napoli, in un convegno organizzato da alcune cooperative sociali, dal Forum Disuguaglianze Diversità, dalla Conferenza per la salute mentale Franco Basaglia, a partire da quelle caratteristiche che potrebbero oggi delineare una nuova e adeguata impresa sociale, capace di tornare a fare spazio nel mondo a chi non lo ha.
In sintesi: se il Paese ambisce a uno sviluppo sociale e ambientale giusto è necessario puntare sulla trasformazione del sistema di welfare e del sistema sanitario, passando da forme assistenziali, contenitive e istituzionalizzanti, estremamente costose e inefficaci, spesso disumane, verso modelli di welfare comunitari, intrecciati con sistemi economici che puntano al guadagno, senza schiacciare le persone e i lavoratori.
L’impresa sociale e la cooperazione sociale possono essere una grande risorsa in tale trasformazione ma perché questo avvenga è necessaria una prospettiva politica mirata al cambiamento, altrimenti il lavoro delle cooperative sociali non produce né innovazione né emancipazione, ma rischia solo di contenere il disagio quotidiano di vivere in quei luoghi difficili, con il rischio di soffocare, schiacciati da dinamiche di esclusione e smantellamento del welfare pubblico e universale.
*L’autore è coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità e amministratore della cooperativa Dedalus di Napoli