Il libro
C'è una operazione culturale in atto per smantellare l'antifascismo
Sulla Resistenza circola una versione denigratoria, quasi mai veridica, che ormai s'è fatta discorso di potere. Chi oggi si schiera dalla sua parte è accusato di battersi contro fantasmi del passato o di remare contro l’unità nazionale
Scriveva Sergio Luzzatto, storico di assoluta vaglia e polemista tagliato al mestiere, in un pamphlet del 2004 sulla crisi dell’antifascismo: «A forza di ironizzare sulla presunta epopea dei “padri della patria”, a forza di stracciarsi le vesti sopra la svolta di Salerno come un ordine venuto da Mosca o sopra piazzale Loreto come un esempio di sadismo partigiano, si finirà per rimpiazzare la logorrea sull’antifascismo e sulla Resistenza con il silenzio sull’antifascismo e sulla Resistenza». Nei vent’anni trascorsi da quella previsione, la logorrea non ha mai davvero lasciato posto al silenzio. E con il senno del poi, il bel tacer sarebbe stato meno inauspicabile delle parole che ci sono toccate in sorte.
Perché la versione dell’antifascismo e della Resistenza che si è intanto fatta discorso di potere è, per lo più, denigratoria; o esteriormente rispettosa: di rado veridica. Il complemento d’argomento adoperato da Luzzatto, «sull’antifascismo e sulla Resistenza», non vale più come l’intendeva lui, ossia «a favore dell’antifascismo e della Resistenza»: ora significa «contro l’antifascismo e la Resistenza».
Volendo ragionare per dicotomie, vagamente alla maniera di Norberto Bobbio, potremmo dire che questa logorrea contro l’antifascismo e la Resistenza ha due dimensioni e due scopi. Due dimensioni: l’una orientata alla storia, cioè all’interpretazione della guerra partigiana, l’altra al presente, cioè alla memoria di quella guerra e al modo di essere attuale dell’antifascismo. Due funzioni: l’una di legittimazione politica, cioè di vocazione istituzionale, l’altra di delegittimazione della protesta, cioè di critica della contestazione allo stato delle cose, quando succede che essa rivada al repertorio dell’antifascismo e si proponga di ravvivarlo. Ciascuna funzione può essere assolta nell’una o nell’altra dimensione.
Prendiamo la formula «Repubblica nata dalla Resistenza». Senza per adesso discuterne la validità, il suo senso è che le forze politiche dell’Italia repubblicana si sono presentate al Paese e riconosciute a vicenda, quindi si sono legittimate, sul presupposto della loro partecipazione alla Resistenza, oppure per la tradizione antifascista da cui provengono; con l’ovvia eccezione del partito neofascista, il Movimento sociale italiano (Msi), e delle sue trasformazioni posteriori. Chi abbia interesse a negare questo meccanismo di legittimazione non potrà limitarsi al silenzio, nell’attesa che il paradigma antifascista passi di moda. Farà meglio a dare una spinta al cambio di stagione, adoperandosi perché la moda passi: vale a dire contestando apertamente il paradigma antifascista e sostituendo a quello un diverso meccanismo di legittimazione.
Si dirà allora, con lo sguardo rivolto al presente, che invocare l’antifascismo e la Resistenza è una scusa per non guardare in faccia la realtà, cercando prestigio con falsa coscienza in una storia ormai perduta. In aggiunta o in alternativa, questa volta con lo sguardo al passato, si dirà che una sola fazione della guerra civile, l’antifascismo, non può e non ha mai potuto rappresentare l’unità nazionale. Per il fatto di aver opposto armi in pugno italiani ad altri italiani, si argomenterà, la Resistenza è naturalmente inidonea a fondare una nazione e il suo Stato. Ecco il paradigma da opporre a quello antifascista: nell’interesse nazionale offeso dalla guerra partigiana, il contrario dell’antifascismo ha trovato la sua legittimazione politica nella «Repubblica nata dalla Resistenza». […]
Non troppo dissimile lo strumentario anche dell’altra funzione, quella reazionaria. A chi protesta, e protestando alza la bandiera dell’antifascismo, s’imputerà di volersi battere contro un nemico immaginario, in una guerra che altri hanno già vinto, e una volta per tutte: l’antifascismo, dunque, come nient’altro che la maschera di un secondo fine, il nome nobilitante di un molto meno alto ideale. Quasi che, dopo il 25 aprile 1945, le stesse donne e gli stessi uomini che avevano fatto la Resistenza si fossero definitivamente appartati in un canto, beati della loro vittoria, e non si fossero mai più levati contro l’essere di una Repubblica che poco somigliava al dover essere di una Liberazione.
Che abbiano per fine la legittimazione di sé o il discredito dell’avversario, che abbiano per oggetto l’attualità o la storia, tutti questi sono argomenti che corrono nel dibattito. E gli argomenti, ovviamente, si esprimono a parole. Questo libro parla soprattutto di parole altrui. O meglio: di testi. [...] Il modo migliore di studiare un testo è leggerlo. Lentamente. Che è poi ciò in cui consisterebbe la filologia, insegnata dai «maestri della lettura lenta», secondo una definizione di Nietzsche cara a Delio Cantimori e ai suoi allievi. Il linguaggio non è la realtà. Né la realtà si conosce solo attraverso il linguaggio. Io conosco al tatto i tasti su cui sto battendo queste parole. Un’amica mi conosce parlandomi, ma anche abbracciandomi e ascoltando il suono della mia voce. Però nel linguaggio esprimiamo e confrontiamo le rispettive percezioni della realtà: dunque la interpretiamo. E, interpretandola, ci interagiamo. È di questa interazione che vorrei parlare, quando avviene che riguardi l’antifascismo e il suo contrario. Di come contribuisce a strutturare una storia e una realtà politica.
*È autore del volume "L'antifascismo e il suo contrario", in libreria dal 27 ottobre (101° anniversario della marcia su Roma) per Edizioni Alegre, di cui pubblichiamo qui un estratto