Quote di genere, incarichi riservati. Sia in politica sia nella corporate governance, chi non è in maggioranza viene tutelato da consuetudini e leggi. Con più o meno negoziabilità

Con l’espressione «democrazia societaria» si possono intendere, oggi, molte cose. Anche sensibilmente diverse fra loro. Lo spettro concettuale di riferimento è così ampio da potersi adoperare, questa locuzione, non soltanto con riguardo alle forme di democrazia pubblica in cui trova organizzazione ciascun consorzio civile (inteso come l’aggregato dei consociati che formano una stessa comunità, in senso primariamente politico-istituzionale), ma perfino con riferimento alle espressioni più mature dei moderni sistemi di corporate governance delle società di capitali, nell’ambito di quel particolare ramo del diritto (che è anch’esso, occorre ricordarlo, scienza sociale) conosciuto come diritto commerciale.

 

L’accostamento fra le due esperienze potrebbe apparire in qualche modo forzato, ma più passa il tempo meno lo si può, a ben vedere, considerare tale.

 

Nelle democrazie liberali occidentali, l’elevazione del principio di maggioranza a centro gravitazionale (anzitutto, del sistema della decisione pubblica) pone, da sempre, il tema delle minoranze. Dello spazio di agibilità da riconoscere a esse, e, conseguentemente, delle forme e della portata degli strumenti preordinati a dare effettività a questo spazio.

 

Nel sistema politico-istituzionale, questo spazio è governato dalle consuetudini parlamentari (come accade quando la presidenza di alcuni organi cosiddetti di garanzia viene riservata – dalla maggioranza, che avrebbe il potere e la forza di fare diversamente – a esponenti dell’opposizione), oppure dalla legge (in questo caso, il riferimento è alle norme che prescrivono le cosiddette quote di genere, oppure, nell’ambito di una procedura di nomina che si declini al plurale, riservano più direttamente un certo numero di designazioni alle forze di opposizione).

 

Nei sistemi più avanzati di corporate governance, la situazione è per certi versi maggiormente articolata. Non soltanto infatti la legge prevede – in particolare, nelle società con titoli negoziati in mercati regolamentati – sistemi orientati a riservare quote dei cda a esponenti dei soci di minoranza, ma prevede altresì la presenza di amministratori indipendenti, che operino in posizione di terzietà.

 

Ebbene, nel sistema politico-istituzionale la tutela della minoranza (in questo caso, come usa dire, dell’opposizione) è possibile perfino dove manca il diritto scritto, quando il vuoto da esso lasciato è riempito dalla consuetudine parlamentare: una sorta di speciale fair play, raramente derogato in punto di fatto, in forza del quale chi ne avrebbe la legittima possibilità (la maggioranza, che disporrebbe dei voti necessari) rinuncia «a prendersi tutto».

 

Diversamente, nei più avanzati sistemi di corporate governance, dove la tutela (o meglio, lo statuto) della minoranza è previsto dalla legge, quindi dalla massima espressione del diritto scritto, affiora la tendenza a ritenere interamente disponibile (cioè negoziabile) questo statuto, attraverso una sorta di (contro) diritto scritto, di stampo pattizio. Siamo, in questo caso, certamente nel campo del diritto privato e non in quello del diritto pubblico; e tuttavia l’idea di una sostanziale rinunciabilità a detto statuto, attraverso convenzioni fra azionisti che diano forma e sostanza allo scambio fra simili atti abdicativi, da un lato, e utilità o controprestazioni, dall’altro lato, lascia un po’ perplessi.

 

Se, nelle società con titoli negoziati nei mercati regolamentati, la logica dello statuto – per legge – delle minoranze è che di questa tutela c’è bisogno (a garanzia di un maggiore equilibrio e di un maggiore bilanciamento dei diversi interessi di cui sono portatrici le differenti categorie di azionisti, in questo genere di società), immaginarne una sostanziale rinunciabilità, in tutto o comunque per buona parte, sarebbe abbastanza contraddittorio. Di contro, sarebbe eccessivo sostenere che lo statuto delle minoranze non sia per nulla da esse negoziabile.

 

Dove collocare il discrimen fra tutto e nulla? Dove, come sempre, suggerisce la ragionevolezza.

 

Tutto ciò detto, è anche il caso di ricordare che le minoranze con riguardo alle quali il diritto delle società quotate prevede quello statuto debbono però essere non troppo minoritarie (se mi si passa l’espressione), debbono cioè rappresentare una quota significativa, ancorché minoritaria, del capitale sociale. È necessario, detto altrimenti, che dimostrino la consistenza tangibile di questa significatività, raggiungendo determinate soglie di partecipazione al capitale.

 

In questo, occorre dire che nel nostro tempo la democrazia societaria applicata per legge alla corporate governance, attraverso lo statuto delle minoranze, si rivela perfino più democratica della democrazia pubblica (quella di Tocqueville, per intendersi) che – nella sfera politica e, più in generale, nell’esperienza delle relazioni sociali – appare in fase di regressione. Sottomessa (anzi, per buona parte, autosottomessa) a quella che da più parti è indicata come «dittatura delle minoranze», che - spesso senza alcuna dimostrazione della propria consistenza quantitativa, cioè della loro capacità di significativa rappresentanza di un pensiero o di una posizione – oggi tendono a ergersi costantemente a supremo giudice, brusco e senza possibilità di appello, di ognuno e di ogni cosa, al di fuori del sistema pubblico, che, è il caso di non dimenticarlo, è fatto di assemblee elettive e corti giudicanti.