Cose preziose
«Sappiamo solo schierarci e dileggiare l'avversario. Ma la contrapposizione continua ci rende uccellini in gabbia»
Foster Wallace, riferendosi ai dibattiti tv, sosteneva che era come guardare sport violenti. L'ironia, infatti, viene usata come arma per colpire il nemico di turno. Eppure, l'illusione che esista una sola parte giusta (e le altre siano sbagliate) è schiavizzante
Abbiamo alle spalle il giorno dei morti e i moltissimi morti delle ultime settimane, e forse dovremmo usare questi tempi oscuri per un paio di riflessioni che ci riguardano. La prima: l’equivoco sulla parola ironia ci ha fatto malissimo. L’ironia non corrisponde al dileggio, di cui i social e i talk show televisivi abbondano, perché, come ricordava una quindicina di anni fa Daniele Luttazzi, il dileggio e il ridicolo sono semmai una tecnica di oppressione che il potere usa per aumentare il conformismo generale.
Ma ironia non dovrebbe essere neanche quella forma di auto-anestesia per evitare di provare qualcosa, e di dimostrarlo: questo sosteneva nel 1993 David Foster Wallace, dicendo che «l’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia».
Trent’anni dopo, constatiamo ogni giorno che l’uccellino in gabbia canta ancora, e canta pensando di dire qualcosa di divertente, ma nella maggior parte dei casi esprime solo il proprio malessere e il proprio risentimento. Uno degli ultimi casi in cui si è cantato a squarciagola riguarda la decisione di Zerocalcare di non andare a Lucca Comics & Games a causa del patrocinio dell’ambasciata di Israele, che si è trasformata nell’ennesima occasione di dileggio e in pretesto per esprimere lo scontento che ci consuma da decenni. Dura pochissimo, nel caso specifico (un paio di giorni e si passa ad altre risse), ma dura da tantissimo.
Sempre Foster Wallace, in quella stessa intervista del 1993, sottolineava che la possibilità di dialogare pubblicamente era finita, in favore della contrapposizione («è come guardare sport violenti», diceva riferendosi ai dibattiti televisivi): «Adesso il 90% dei discorsi politici è complice di quella sexy e semplicistica illusione secondo cui una parte è Unica e Giusta e l’altra Sbagliata e Pericolosa. Sicuramente è un’illusione piacevole, così come lo è credere che ogni persona con cui si è in conflitto è stronza, ma non conduce per niente a un pensiero concreto».
Il punto è che forse dovremmo andarci a leggere qualche dato fra quelli forniti dall’Istituto superiore di sanità, e che ci dicono che siamo depressi: l’Axa mind health report 2023 ci informa che l’Italia è ultima in Europa per il livello di benessere mentale. Specie le donne, blandite col bonus secondo figlio e contemporaneamente colpite con l’aumento dell’Iva sugli assorbenti e sui prodotti per l’infanzia, e mai considerate cittadine di questo Paese a tutti gli effetti. E quanto poco contino, nell’immaginario, è provato anche dalla progressiva indifferenza nei confronti delle morte ammazzate (sì, ci sono stati altri femminicidi, nel frattempo, e, sì, è morta Armita Geravand, la ragazzina curda massacrata a Teheran perché non portava il velo nel modo corretto).
Ci sono infinite ragioni per la tristezza collettiva che proviamo. Molte sono spiegate nella cosa preziosa di oggi, “Sotto l’iceberg” dello psicanalista Luigi Zoja, che esce per Bollati Boringhieri. Dove si ricorda che non desideriamo più, e non ridiamo. Non riusciamo neanche a «ridere verde» come si faceva nei cabaret berlinesi degli anni Trenta, dove ci si arrendeva davanti all’orrore imminente. Ma nonostante tutto si continuava a sperare.