Resistenti

«Ditemi di che cosa parlate a tavola e vi dirò che tipo di famiglia siete»

di Diletta Bellotti   8 novembre 2023

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Al di là del cibo, il momento della condivisione dei pasti è fondamentale per delineare i rapporti tra i membri di un nucleo. Ma anche il contesto culturale e psicologico. Forse l'ideale sarebbe scambiarsi a rotazione i commensali, sentire ciò di cui discutono gli altri, per allargare i propri orizzonti

Credo che, crescendo, uno degli elementi più rilevanti è ciò di cui si discute a tavola con la propria famiglia. Nel tempo, il concetto di famiglia si amplia e sfilaccia, ma ciò di cui si parla in situazioni intime e percepite come familiari rimane indubbiamente un pilastro identitario, forse non troppo sondato. Per la nostra cultura, abbastanza unanimemente, questo rimane un momento irrinunciabile, sopravvissuto ai mutamenti storici, qui più che altrove.

Per esempio, una mia compagna d’università, Yashodhara Krishna Singh, aveva portato avanti una ricerca sul legame tra i disturbi del comportamento alimentare (Dca) e la cultura di mettersi a tavola insieme. Semplificando, in culture dove si mangia più di fretta e in solitudine, come, nel suo caso di studio, in Inghilterra, è più facile che un Dca passi in sordina tra i membri di una “famiglia”. Il modo in cui il cibo viene trattato e significato ha, chiaramente, un impatto sui Dca. Fra tutti, questo forse è una delle poche costanti nella maggioranza dei nuclei familiari.

Intorno al culto familiare del cibo, ci sarebbe molto altro da dire: per esempio, su come si esalta l’abbondanza di una tavola imbandita e su cosa quello significa per la classe d’appartenenza della famiglia in questione. Tutto ciò che esula dal cibo a tavola non è però meno importante. È qualcosa che si nota negli altri: se a tavola, crescendo, hanno sentito discutere assiduamente di politica interna o di come era andata, per davvero, la giornata di ognuno, se mangiavano con la Tv accesa e il telefono in mano; in solitudine, in silenzio o coperti di urla.

Per continuare quest’esercizio di immedesimazione, si potrebbe deportare una famiglia in una stanza finta, in un set da Ikea. Così si tolgono alcuni degli elementi più significativi come la qualità delle stoviglie e dei tessuti e l’odore e lo stato della cucina o della sala da pranzo. Se ci si sofferma ad ascoltarli, per un’ora o giù di lì, dovremmo riuscire a delineare alcuni elementi. Primo fra tutti, forse, quanto e se si amano, le tensioni pregresse e quelle in divenire, e tutte le questioni affettive che trattano alcuni film francesi indipendenti.

Ho notato che in alcune famiglie la tavola simboleggia la condivisione di saperi, l’ampliamento del capitale culturale. Forse il miglior modo per capirsi è scambiarsi a rotazione le famiglie, andare a sentire cosa dicono gli altri, se c’è qualcuno che, a tavola, pratica l’ascolto attivo, la comunicazione non-violenta. Crescendo l’hanno imparato un po’ tutti che l’unico modo di farsi ascoltare a tavola è invitare un ospite, un jolly che rafforza le nostre narrazioni e le nostre esperienze di vita, che obbliga il pubblico all’ascolto, anche solo per educazione e non necessariamente per curiosità.

Così facendo, in quel nucleo si crea una crepa e s’infiltra una novità: un modo nuovo di pensare, una nuova informazione. Alcune famiglie funzionano a compartimenti stagni, sono luoghi militarizzati in cui è impossibile forare il consenso armato intorno ad alcuni temi. A rotazione, bisognerebbe scambiarsi le famiglie, così da essere costretti a passare il tempo con persone che non stimiamo, che non la pensano come noi, ma che siamo costretti ad ascoltare con una certa dose di creanza. Ciò di cui si parla a tavola riproduce l’iniquità del mondo fuori. Se, a rotazione, potessimo visitare le famiglie degli altri forse saremmo meno bigotti, meno piccolo-borghesi. Forse ci vorremmo più bene.