Insegnanti, magistrati e altri funzionari si oppongono al giudizio sul loro lavoro. Ma solo stabilendo, con criteri adeguati, chi fa bene (e va premiato) e chi no si può migliorare le performance dell'intera macchina

Il ritornello del «nessuno mi può giudicare» di caselliana memoria (intendo Caterina, naturalmente) è stato di recente ripreso dai giudici in risposta al testo del decreto legislativo circolato dal governo in attuazione della riforma Cartabia, testo che introduce una sorta di “pagella” per i magistrati. I magistrati hanno criticato l’idea di una “pagella” con le solite argomentazioni: si finisce per burocratizzare la professione del giudice, è difficile giudicare oggettivamente, per la sua particolare natura, il lavoro di un magistrato; occorre garantire l’indipendenza dei giudici dal potere esecutivo. Mi sembrano obiezioni vaghe e, l’ultima, senza fondamento, dato che il giudizio sui giudici sarebbe dato da altri giudici e non dall’esecutivo.

 

Ma i giudici non sono i soli dipendenti pubblici a non voler essere giudicati. Qualche anno fa la stessa reazione negativa venne dagli insegnanti che rigettarono la riforma “Buona Scuola” del governo Renzi, che prevedeva per loro un chiaro sistema di valutazione. Questi – dicevano – non si fidavano di chi li avrebbe giudicati, ossia dei loro stessi superiori nella scala gerarchica. Dobbiamo allora stupirci se poi anche gli studenti non vogliono essere giudicati? Le manifestazioni dello scorso anno contro la meritocrazia nella scuola erano portate avanti nel nome di una scuola più giusta, dimenticandosi che, se tutti escono dalla scuola più o meno con gli stessi voti, gli unici a guadagnarci sono i figli dei ricchi che tanto, indipendentemente dai risultati scolastici, hanno un futuro assicurato nella vita.

 

Di fronte a queste considerazioni dovrei essere felice della recente direttiva del ministro per la Pubblica Amministrazione Zangrillo (“Nuove indicazioni in materia di misurazione e di valutazione della performance individuale”). Dice tutte cose giuste sull’importanza della misurazione e della valutazione della performance e, anzi, lancia l’idea di una valutazione dei dirigenti «a 360 gradi», ossia una valutazione che si basi sul parere non solo dei superiori, ma anche di colleghi e subordinati. Mi sembra però come volere correre prima di aver imparato a camminare. Prima cerchiamo di assicurare che tutti i dipendenti pubblici siano valutati per quello che fanno usando metodi tradizionali, ossia in base al giudizio dei superiori (che poi a loro volta saranno valutati anche in base alla loro capacità di valutare, senza favoritismi, i dipendenti). E poi, magari, si proverà qualcosa di più complicato. Altrimenti si arriverebbe all’assurdo di avere dirigenti pubblici valutati dai loro dipendenti senza potere di fatto valutarli.

 

Ultima considerazione. L’efficientamento di pubblica amministrazione, giudici, insegnanti e quant’altro è molto importante. L’avversione alla valutazione dei dipendenti pubblici è uno dei problemi principali dell’economia italiana. Se non si può valutare il lavoro fatto non si può distinguere tra chi fa bene il suo lavoro, e va premiato, e chi invece lo fa male e non va premiato. Si perde quindi un fondamentale strumento di incentivazione e quindi di efficientamento della pubblica amministrazione, che è essenziale per la nostra crescita economica. Ma le resistenze in quest’area sono enormi e si potranno fare passi avanti solo se le riforme, appunto in quest’area, diventeranno un’assoluta priorità per il governo a partire dalla presidente del Consiglio. Non mi sembra che sia questo il caso, per il momento.