Belle storie
«Quando volevo aprire PizzAut mi dissero che ero solo un pazzo che creava false illusioni»
Per occupare giovani autistici come suo figlio, Nico Acampora ha creato la pizzeria, nonostante lo scetticismo di commentatori, medici e banche. E sono tanti i genitori che, come lui, lottano contro i pregiudizi
Una neuropsichiatra disse a Nico Acampora, papà di un bambino autistico, che la sua idea di aprire una pizzeria in cui far lavorare un gruppo di ragazzi autistici era soltanto la realizzazione di una sua frustrazione: «Genitori incapaci di accettare i limiti dei propri figli, a cui danno false illusioni e false speranze». Anche alcuni commentatori sui social si sono scagliati contro l’iniziativa di offrire un’occasione di inclusione sociale, di indipendenza, definendolo «pazzo, mitomane, handicappato».
«Il direttore di banca a cui chiesi il mutuo per avviare il ristorante mi disse che era un progetto nobile, ma che non avrei mai trovato i soldi per poterlo mettere in piedi», racconta Nico. Ma lui non si è arreso, vincendo la sua battaglia, e oggi, oltre alla pizzeria PizzAut a Cassina de’ Pecchi, nel Milanese, ha aperto un secondo ristorante a Monza.
«Molti di questi ragazzi non avevano mai preso la metropolitana, oggi arrivano sorridenti e mi dicono con orgoglio che sono venuti da soli. Lavorano felici, comunicano con la clientela, mentre fino a qualche tempo fa sembrava impossibile vederli interagire con estranei».
Tante famiglie non si arrendono e il percorso di studi, così come quello professionale, è un argomento che affrontano con non poche difficoltà pratiche e culturali. Simona e Marco sono i genitori di Giacomo, sedici anni. «Per i ragazzi particolari come Giacomo, l’ambiente in cui sono immersi è fondamentale. Se è stimolante, partecipativo, coinvolgente, lui fiorisce. Se l’ambiente è chiuso e formale, lui sparisce. Ogni autismo è fatto a modo suo; non c’è una formula». Giacomo supera le scuola elementari, poi le medie con dieci all’esame di terza. «Comincia un percorso facendo una fatica quasi biblica, ma poi ce la fa».
È con il liceo che sorgono i veri problemi, fin dai dubbi sull’iscrizione. «La decisione di iscriverlo al liceo linguistico non è stata facile, hanno influito la sua passione per l’arte e le lingue, la vicinanza a casa, che lo rende indipendente nel rientro da scuola, e anche un ambiente con molte ragazze che abbiamo supposto potesse essere meno soggetto al bullismo. Prima di iscriverlo siamo andati a parlare con i presidi di varie scuole superiori. A parole c’è inclusione; nei fatti no. Nei licei, casi particolari come Giacomo non sembrano neanche contemplati».
È difficile anche preparare i compagni di classe per un eventuale rapporto con Giacomo e non lasciare che trascorrano anni senza riuscire a interagire. Come hanno fatto i dipendenti del ristorante PizzAut che, a un certo punto, si sono sbloccati nel rapporto con gli estranei.
«Il “percorso” normale significa il raggiungimento dell’obiettivo. Per nostro figlio è il diploma, il lavoro. Giacomo potrà e dovrà lavorare perché può e perché lo vuole. Che sia in una biblioteca, in un museo. La nostra società deve avere la capacità di integrare anche le fragilità».
Sembra che a un certo punto ci sia uno sbarramento culturale, una sorta di ghettizzazione della diversità: se non sei adeguato agli standard, non sei meritevole di attenzioni. Come ha dichiarato Bebe Vio, durante la cerimonia Wembrace Awards, «la diversità esiste e ci accomuna tutti. Ma è sul concetto di normalità che occorrerà riflettere e discutere».