Il dibattito sulle indennità di carica dei parlamentari sconta il vizio populista di considerarle stipendi. E se alcuni eccessi vanno denunciati, non bisogna cadere nell’equivoco di desiderare un eletto-impiegato

In principio fu il salario (i soldati delle legioni romane erano remunerati con il sale), poi in ambito pubblico venne lo stipendio, che per i dipendenti ha originato dispute e innovazioni (si pensi alla contrattazione collettiva). Su un piano diverso, da quando, con la Magna Charta, iniziò a porsi la questione della rappresentanza politica in senso moderno, si avviò la parabola storica che determinò la previsione, per gli eletti, dell’indennità di carica. Un emolumento pensato, appunto, per indennizzare chi, per dedicarsi all’esercizio della “rappresentanza” politica, non lavora. Non già per stipendiare.

 

Dietro (e dentro) questa questione, apparentemente solo nominalistica, sta - ancora oggi - il senso stesso della rappresentanza politica, in Occidente. Compresa l’idea che rappresentante degli elettori, cioè eletto, possa essere chiunque, anche i meno abbienti. E non soltanto coloro che, per censo e mezzi personali, possano permettersi di non lavorare (in costanza di mandato): insuperato, in proposito, il modello che distinse, anche nei secoli migliori, la Serenissima (cariche pubbliche gratuite, riservate al patriziato).

 

Poi, un’ondata di populismo montante, sviluppatasi negli ultimi decenni sulla scorta di scandali e malcostumi non rari, ha assuefatto l’opinione pubblica all’idea opposta che quello dell’eletto sia un lavoro, l’indennità (per immediata conseguenza) uno stipendio, e, quindi, sia sensato misurare le percentuali di presenza degli eletti ai lavori d’aula e di commissione. Come se il punto chiave stesse nella regolarità della timbratura del cartellino, piuttosto che nei risultati dell’azione politica del singolo eletto. Per sommo paradosso, secondo questo metro, un parlamentare che riuscisse con il suo impegno a determinare una modifica migliorativa della Costituzione, dovrebbe - se spesso assente dai lavori parlamentari o consiliari - essere considerato (ciononostante) un reprobo.

 

In buona sostanza, si è affermata nei fatti e nel tempo la sottocultura della “travetizzazione” dell’eletto. Non di questo o quell’eletto ma di tutti. Indistintamente. Sempre. Ovunque. Da qui, una serie di distorsioni concettuali nel dibattito pubblico, che finiscono per sviarlo, conducendolo a esiti nuovamente paradossali: su tutti, il caso dei cosiddetti costi della politica, che a dispetto del nome sono stati tradotti, per legge, essenzialmente nel tetto agli stipendi per i dipendenti pubblici. Semplificando (ma non troppo), dal parlamentare-travet alla politicizzazione (scambiando stipendi per indennità di carica) del dipendente pubblico. Rendendo, così, tutto un po’ indistinto, tutto un po’ accomunato nella critica piatta ad alzo zero, tutto un po’ egualmente additato come parimenti deplorevole, tutto spacciato per simmetricamente biasimevole.

 

A chi e a che cosa giova tutto questo? Dove ci porta considerare - indistintamente - tutti gli eletti come una sottospecie di dipendenti pubblici selezionati non già per concorso ma con quei curiosi congegni elettivi tipici di quella strana cosa che ancora si chiama democrazia rappresentativa? Poi, certo, ci sono le degenerazioni, i profittatori, gli avventurieri, gli inetti. Da tenere bene a mente. Ma quando si tratta dei “fondamentali” delle democrazie occidentali, occorre fare molta attenzione. Il rischio di buttar via il bambino assieme all’acqua sporca resta sempre molto alto. Troppo, probabilmente.