Parole di Libertà

«Perché decriminalizzare il sex work è un atto di civiltà»

di Nicola Graziano   5 settembre 2023

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Sex worker

Riconoscerlo come lavoro ha una serie di implicazioni sui diritti ed è un argine contro rischi e abusi. Per questo l'iniziativa dei Radicali va sostenuta

Centomila persone impegnate nel sex work di cui la maggioranza sono donne, un giro di affari con un fatturato che si aggira attorno ai 3 miliardi di euro per circa 3 milioni di clienti l’anno (la maggior parte uomini); questi i dati che stanno alla base della recentissima proposta di legge di iniziativa popolare presentata dai Radicali per la completa decriminalizzazione della compravendita del sesso.

 

In Italia, però, si continua a ignorare un fenomeno diffusissimo che non costituisce reato (se non sotto la forma della costrizione e/o dello sfruttamento) perché è pacifico che concedere il proprio corpo dietro il corrispettivo di una somma di denaro o altra utilità non può essere penalmente punito ma ipocritamente presenta quei profili di contrasto al buon costume e all’ordine pubblico, con tanto di conseguenze dal punto di vista del diritto ma anche e soprattutto della morale pubblica.

 

Eppure, la prostituzione è da sempre esistita come una delle attività più antiche al mondo, ma dalla legge Merlin in poi lo Stato le ha voltato le spalle, liberandosi di quel potere esercitato attraverso un sistema gestito direttamente, lasciando così campo aperto a interpretazioni preconcette, discriminatorie e spesso gravemente pregiudizievoli.

 

In questo senso allora va riconosciuto un grande merito al disegno di legge presentato dai Radicali che mira a dare dignità ai lavoratori del sesso e a liberare, anche dal punto di vista etico e morale, la compravendita dei servizi sessuali in modo da poter tutelare chi, per libera scelta, ha bisogno di trovare risposte dal punto di vista sanitario, fiscale e lavorativo ma ancor prima dal punto di vista culturale e sociale.

 

Si può continuare, nel nome di una morale pregiudizievole presa di posizione, a girare la faccia dall’altra parte pur nella consapevolezza che chi esercita questo tipo di lavoro è esposto ad ogni rischio, senza la possibilità di poter rivendicare quei diritti fondamentali che stanno alla base di ogni tipo di attività lavorativa?

 

E le garanzie? Quella di poter rivendicare il diritto al corrispettivo della prestazione? Quella di poter organizzare il sex work in forma trasparente e tutelata? Quella di potersi ribellare a violenze e denunciare? Quella di potersi rifiutare? Quella di poter vedersi riconosciuta come malattia professionale quella contratta a seguito dell’attività lavorativa e più in generale alle prestazioni sanitarie?

 

Sono tutte domande queste a cui lo Stato deve dare una risposta chiara ed evidente perché uno Stato democratico e maturo non può non affrontare questi temi cruciali della società vivente in cui l’indifferenza genera solo continuo pregiudizio.

 

Non è più il tempo di rimandare e questo tema va affrontato nel nome dei diritti umani fondamentali che si contrappongono allo stigma sociale che colpisce quanti esercitano tale attività che sono considerati soggetti immorali.

 

Tutto ciò non è possibile, tutto ciò non è rinviabile. Tutto ciò fa parte di un ineludibile dibattito sui diritti civili fondamentali su cui si gioca il futuro di una società democratica.