Celebrare davvero il leader dei diritti civili significa coltivare la possibilità di un universo morale. Per lui non esistevano mezze-libertà. Ma il suo pensiero è stato edulcorato per renderlo digeribile

Il 15 gennaio 1929 nacque ad Atlanta, in Georgia, il pastore e leader dei diritti civili Martin Luther King Jr. Oggi, nel mondo, King è lodato da figure istituzionali e media, ultra-citato e travisato: è parte di una performance di un ricordo slavato, poco veritiero, soggiogato all’utilità di un potere a cui King e il movimento per i diritti civili si opponevano. Come argomentato dall’ex Pantera Lorenzo Kom’boa Ervin: «Il King che ci viene presentato è il King aziendale, la creatura del governo bianco che ha usato questo mito pacifista per sconfiggere con il sangue il movimento per la libertà dei neri degli anni ’60, di cui lui è stato una delle principali vittime assieme a Malcolm X, altro grande leader di quel periodo».

 

Pur essendo famoso per la non-violenza, King non condannava coloro che si ribellavano, credeva che la rivolta fosse «il linguaggio di chi è inascoltato». Tutt’altro che un distratto peace&love, King è stato uno dei più sofisticati pensatori occidentali del ’900 su cosa significhi la pace e cosa l’amore e, soprattutto, sulle implicazioni politiche e sociali di queste: «Non avete mai amato i neri perché il vostro era un amore condizionato. Era condizionato dal fatto che il nero rimanesse al suo posto» (The Strenght to Love, 1962).

 

Nella lettera dal carcere di Birmingham, del 1963, King attaccava i bianchi moderati, più devoti all’ordine che alla giustizia, coloro che «preferiscono una pace negativa, che è assenza di tensione, a una pace positiva che è presenza di giustizia». Nella lettera King sosteneva che chi è al potere, o chi beneficia dell’oppressione altrui, può anche, a parole, sostenere «la causa» ma condannerà sempre i mezzi. Vorrà infatti scandire i tempi e le modalità della liberazione, perché quel moto non lo riguarda davvero, è un vezzo, una danza per distrarre. Ribadisce anche che coloro che portano avanti azioni dirette nonviolente non sono i creatori di tensione all’interno della società, ma piuttosto coloro che portano in superficie tensioni nascoste che sono già vive. Le portano allo scoperto, dove possono essere viste e affrontate dalla società tutta.

 

Verso la fine della sua vita, King divenne sempre più radicale, criticando il militarismo, la guerra, la povertà e il capitalismo, allontanando così alcuni dei suoi sostenitori più liberali. Quando gli chiesero perché si fosse schierato contro la guerra in Vietnam rispose che aveva lottato troppo a lungo contro la segregazione razziale per poi segregare la propria moralità: «La giustizia è indivisibile» (The Trumpet of Conscience, 1968). Anche bell hooks, in Speaking Freely, sostenne che dell’uomo che molti ricordano per il poetico discorso «I Have a Dream» si dimentica la profonda e penetrante analisi socio-politica sull’imperialismo. «E perché?», si chiede hooks. «Perché, in un certo senso, abbiamo censurato quel Martin Luther King. Persino la festività in suo nome, il terzo lunedì di gennaio, è stata istituita con lo scopo di renderlo più appetibile».

 

Rendere digeribile un messaggio radicale, cioè che chiede l’estirpazione del problema e non la sua potatura, non significa renderlo comprensibile ai più. Anzi, implica esattamente il contrario: assegnargli un luogo asfissiante e contraddittorio; incomprensibile. Poiché una mezza-libertà, una mezza-giustizia è priva di senso, è illogica. Tenere vivo il ricordo di Martin Luther King significa coltivare con lucidità la speranza e la possibilità di un universo, in fin dei conti, morale.