Lo scontro verbale non riguarda solo i rapper, ma è parte nella nostra quotidianità da parecchio tempo e peggiora. E anche in politica è pratica assai diffusa

Nel 1922 Arthur Conan Doyle decise di scendere in campo in difesa della fotografia spiritica, pratica molto comune ai tempi. Il creatore di Sherlock Holmes credeva infatti negli spiriti, era a pieno titolo membro del Ghost Club inglese ed ebbe a battibeccare con il re degli illusionisti, Harry Houdini, proprio sullo spiritismo. In realtà i fantasmi che apparivano nelle fotografie erano il frutto di una doppia esposizione, una tecnica che permette di far apparire un volto o una persona accanto al soggetto fotografato. Insomma, una truffa. 

 

Ci sarebbe molto da dire sui motivi che hanno indotto in errore lo scrittore che esaltò nei suoi romanzi il metodo razionale induttivo: li ha analizzati Alessandro Giammei nella sua introduzione a Fotografare gli spiriti dello stesso Doyle, e tanto basti.  Negli ultimi tempi abbiamo un problema simile e più grave: non conosciamo una tecnica e ne rimaniamo affascinati. Prendiamo il dissing, in parole poverissime la gara di insulti fra rapper, un classico dell’hip hop che dovrebbe essere noto anche a chi ha visto solo 8 mile oltre vent’anni fa, e di cui rimane celebre la frase con cui Eminem si sottrae alla pugna: And fuck this battle I don’t wanna win.  

 

Invece no, c’è stato un fiorir di commenti sorpresi e indignati sul dissing tra Fedez e Tony Effe come se lo scambio di contumelie fosse qualcosa che riguarda soltanto il rap. Come ha argutamente dimostrato l’attrice Chiara Anicito su Instagram, chi si stupisce non ha mai frequentato un gruppo whatsapp di mamme, da cui anche Suge Knight, il più pericoloso fra i rapper, sarebbe fuggito a gambe levate. Il dissing è nella nostra quotidianità da un bel po’ e peggiora: chiunque prenda un treno o una metropolitana o guidi un’automobile lo sa. 

 

Quanto alla politica, non ha risparmiato i suoi dissing neanche nella settimana in cui era semmai urgentissimo tirare l’Emilia-Romagna fuori dal fango: invece, il viceministro Galeazzo Bignami ha esibito un piglio da far invidia a Miley Cyrus quando le ha cantate all’ex, accusando la Regione e i Comuni che in quel momento erano intenti a spalare.

 

La presidente del Consiglio, bontà sua, ha detto che lei non fa polemiche. Che strano, deve aver dimenticato l’attacco a Roberto Saviano dal palco di Atreju dello scorso dicembre: «I camorristi fanno vendere, ci si fanno le serie televisive. E magari (gli scrittori) regalano il pulpito da New York da cui dare lezioni di moralità agli italiani. Sempre, si intende, a pagamento». 

 

Anche l’attacco ai pm del processo Open Arms non sembrava esattamente una carezza: «Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall'immigrazione illegale è un precedente gravissimo», e tocca citarne solo due per ragioni di spazio. 

 

Insomma, ci turbiamo per lo scontro fra due rapper e siamo immersi nel dissing di governo, e non da poco tempo. Per questo, la cosa preziosa di oggi è Virtual influencer di Davide Sisto, uscito presso Einaudi, che è un’indagine affascinante sulle creature digitali, puri sciami di bit, e che pure esistono, sorridono, convincono e fatturano sui social network. A volte fanno anche politica, come Erica Marsh, giovane, bionda e fan di Biden: ovviamente, Marsh non esiste. «Il fenomeno dei virtual influencer dispone delle potenzialità necessarie per influire sul modo di agire e di comportarsi delle persone», scrive Sisto.

 

Il problema è che, come i fantasmi di Doyle e come le non polemiche di Meloni, non siamo in grado di capirlo.