I divieti e la gestione securitaria delle proteste alimentano un clima teso che si riflette sulla piazza

C’era un sentimento di tragedia annunciata tra chi si preparava, la mattina del 5 ottobre, a raggiungere il concentramento sotto la Piramide Cestia, a Roma, ma anche un entusiasmo frizzante. La paura condivisa denota, se non un istinto di sopravvivenza, quantomeno una psicosi collettiva: la dimostrazione che il terrore è stato seminato e che la macchina repressiva che culmina nel Ddl 1660 è già attiva. Nei giorni precedenti al corteo la memoria collettivizzata di Genova nel 2001 e di San Giovanni nel 2011 ha infettato l’immaginario di una piazza possibile, nel terrore e nella cura. La piazza era composta da decine di migliaia di anime diverse che denunciavano all’unisono l’intensificarsi dello sterminio del popolo palestinese, dei bombardamenti israeliani in Libano, in Siria e in Yemen; che lottavano contro l’industria bellica e petrolifera che trae profitti dall’occupazione sionista. Quest’eterogeneità non è e non vuole essere compressa in una retorica di “buoni” e “cattivi”: c’erano manifestanti coesi che hanno risposto diversamente alla stessa situazione repressiva e violenta. Persone che hanno deciso di scendere in piazza nonostante il terrorismo mediatico, i blocchi ai caselli autostradali, alle stazioni di treni e pullman, nonostante le perquisizioni e le identificazioni arbitrarie, i fogli di via e i fermi.

«La violenza non è mai la risposta» e Chiaramonte e Senaldi in Violenza Politica contestano: «Ma non è forse stata la forza materiale del movimento a concedergli il lusso di essere, tutto sommato, pacifico?» (2018). E, guardando alla mobilitazione del 5 ottobre, si potrebbe pensare che se si è attivata ogni forma repressiva per vietare, impedire e criminalizzare una manifestazione, non è ovvio e forse legittimo che qualcosa si inneschi? Non si è fatto forse di tutto affinché la manifestazione non fosse pacifica?

Nel comunicato post-corteo Giovani Palestinesi Italiani e l’Unione Democratica Arabo Palestinese scrivono che «il più grande rischio per il governo è scontrarsi con un fronte unito, che mira a obiettivi chiari». Per questo da subito la stampa e i social media si sono riempiti, da destra a sinistra, di retorica sul buono e il cattivo manifestante, sui violenti e gli infiltrati. Dimenticando che l’escalation del conflitto, le «pratiche violente», sono il risultato materiale di un corteo imbottigliato per ore in una piazza senza via d’uscita. Inoltre, vietare una manifestazione nazionale per ragioni politiche e non per motivazioni reali di «sicurezza pubblica» ha esteso la chiamata a tutte le realtà e soggettività che hanno il coraggio di affrontare le conseguenze fisiche e legali di quel divieto. Già da giorni si parlava, imbeccati dalla questura, di «allarme infiltrati» per dire che se non fosse successo qualcosa l’avrebbero fatto succedere loro. Con queste premesse il corteo e gli scontri sono andati fin troppo bene ed è auspicabile che si impari a stare nel conflitto perché questo è quello che, volenti o nolenti, i tempi richiedono. Nel frattempo, il processo in direttissima a Tiziano Lovisolo, ora agli arresti domiciliari, continua ad anticipare «la gestione penale del conflitto» da parte del governo (Chiaramonte, 2019). La spettacolarizzazione dei «manifestanti cattivi» immortalati in lanci di sassi è un tappeto rosso mediatico, che tenta di cristallizzare un “noi” e un “loro” e che non si vedeva da un po’. Non si deve, questa volta, perdere lucidità: non c’è pace senza giustizia.