L’esasperata attenzione sul suo aspetto è una componente della criminalizzazione delle vittime

Dal 23 ottobre l’attivista e regista curdo-iraniana Maysoon Majidi è libera, adesso bisogna tentare di scagionare la retorica che, da destra a sinistra, l’ha usata come capro espiatorio. Non a caso si è parlato molto di lei, del suo aspetto e delle sue lotte (edulcorandole) e poco delle ragioni per cui una persona che rischia la vita nel Mediterraneo è criminalizzata. Majidi è stata dieci mesi in carcere dopo essere stata arrestata nel dicembre 2023 sulle coste calabresi con l’accusa di essere una scafista. Il 27 novembre si terrà l’ultima udienza in cui si deciderà il destino di Maysoon.

Sulla stessa costa, nella notte tra il 25 e 26 febbraio 2023, nella strage di Cutro, 94 persone morivano in mare. Majidi, come anche Marjan Jamali e altre centinaia di persone sono state recluse nelle carceri italiane con l’accusa di essere scafiste. La retorica razzista sulle persone migranti la conosciamo bene: ha colonizzato l’immaginario comune delle traversate in mare e cosa le causano. Si dimentica che persone come Majidi hanno dovuto pagare, anche tramite l’estorsione e la tortura, decine di migliaia di euro per arrivare in un luogo che ritenevano, spesso erroneamente, sicuro. Mentre invece le politiche introdotte dall’attuale governo, inasprite dal Decreto Cutro e dalla lotta agli scafisti, continuano a trasformare il soccorso in mare in una caccia al crimine, spostando la responsabilità delle politiche migratorie razziste e assassine dei governi su coloro che fisicamente guidano le barche.

Nella puntata de Lo stato delle cose del 28 ottobre si è parlato del caso Majidi con una fastidiosa attenzione al suo aspetto fisico che si è infatti conclusa «inquadrando gli occhi di Maysoon». Sul tema, il comitato per la liberazione di Majidi ha scritto: «Serve una contro-narrazione; serve lavorare per cercare di decolonizzare e depatriarcalizzare la maniera in cui analizziamo gli eventi, perché le parole con cui raccontiamo le persone migranti rappresentano la base culturale per le violenze che infine sembrano scandalizzarci tutti – qualora ne venissimo a conoscenza. Cosa che le nostre bolle sociali di certo non assicurano. In questo caso, in cima alla piramide della violenza c’è la Maysoon di turno che finisce in carcere per dieci mesi accusata di colpe che sono solo il frutto di sistemi coloniali e per nulla di una giustizia funzionante; in fondo c’è il Giletti di turno che, se pur nel tentativo di difendere la vittima, non fa altro che continuare ad alimentare la cultura che sorregge i suddetti sistemi».

Oggettificare e sessualizzare le donne, soprattutto le combattenti, per poterle scagionare è qualcosa di estremamente comune. Mentre nei casi in cui non si prestino a essere oggetto e feticcio, si richiede quanto meno il sacrificio: che abbiano patito l’inferno e che lo dimostrino. Maysoon Majidi è sopravvissuta alle carceri iraniane, alla tortura e al Mediterraneo, questo l’ha solo resa degna di una detenzione. Attraverso il suo corpo è diventata poi momentaneamente oggetto mediatico, scagionabile solo per kalokagathia; moralizzando così la bellezza e una bellezza, peraltro, biancheggiante.

L’assoluzione non può passare da uno sguardo, così come una colpa non può passare dal tentativo di sopravvivere. «Gli occhi, caro mio, non mentono mai», lo lasciamo dire a Scarface, qui si preferiscono i processi giusti.