Fuoriluogo
Case lavoro l’ossimoro da cancellare
In 300 sono sottoposti, dopo la pena, a una misura di sicurezza che può durare anni se non all’infinito
Si è perso il conto dei suicidi e dei morti in carcere per cause da accertare; i detenuti che si sono tolti la vita quest’anno sono al momento 83 (e sette gli agenti di polizia penitenziaria) e gli ospiti delle patrie galere superano le 62.000 persone: corpi ammassati senza dignità. Il sottosegretario Delmastro che vorrebbe stuprare l’articolo 27 della Costituzione sul senso della pena, di fronte a questa catastrofe umanitaria proclama che un provvedimento di amnistia (dopo 25 anni) e di indulto costituirebbe una resa dello Stato. Molte cose intelligenti si potrebbero fare, invece si insiste sull’edilizia penitenziaria, sulla creazione fantasiosa di nuovi reati e sull’aumento delle pene dei fatti di lieve entità per violazione della legge proibizionista contro le droghe fino alla previsione di punire gli atti di resistenza passiva e di nonviolenza per rivendicare i diritti in carcere. Una misura di civiltà sarebbe finalmente la cancellazione delle misure di sicurezza per imputabili e delle cosiddette case lavoro che rappresentano un reperto di archeologia criminale ereditato dal Codice Rocco e dalla visione lombrosiana.
Trecento sventurati, definiti delinquenti abituali, professionali e per tendenza, dopo avere scontato la pena in carcere, non tornano in libertà ma vengono sottoposti a una misura di sicurezza che può durare anni se non all’infinito. Il ministro Nordio che presiedette una commissione per un nuovo codice penale non ha nulla da dire? La “Società della Ragione” ha condotto una ricerca sulle nove case lavoro e colonie agricole che è stata presentata la settimana scorsa ad Alba con Bruno Mellano, garante dei diritti di persone private della libertà personale della Regione Piemonte. La ricerca condotta da Giulia Melani, Katia Poneti e Grazia Zuffa e sostenuta dalla Chiesa Valdese, è intitolata Un ossimoro da cancellare e pubblicata da Edizioni Menabò, per indicare la necessità di una profonda riforma. Il paradosso è rappresentato da una truffa delle etichette: si chiamano case lavoro secondo una logica di disciplinamento, ma il lavoro non c’è: ad Alba si potrebbero utilizzare i cani da ricerca dei tartufi per scoprire il mistero.
La cosa più grave è che le case lavoro sono sezioni del carcere e addirittura a Barcellona Pozzo di Gotto e ad Aversa sono state collocate nella sede dell’ex Opg. Solo Castelfranco Emilia, una struttura usata come carcere a custodia attenuata, è ora casa lavoro specifica. Dal quadro della composizione della popolazione internata emerge ancor più il carattere di emarginazione e marginalità coperta dallo stigma della pericolosità sociale. La percezione che gli internati hanno della misura di sicurezza è di una incomprensibile ingiustizia. Un internato di Alba ha affermato in maniera icastica: «La parola giusta è “quando”: quando possiamo riprendere una vita? Quando possiamo rivedere la famiglia? È il quando che ti uccide...». Può apparire stravagante proporre l’abolizione di questa misura in questi tempi torbidi, ma non ci si può rassegnare alla catastrofe. E come si sono chiusi i manicomi giudiziari si può tentare una sfida di civiltà e di umanità. La proposta di legge presentata alla Camera dall’onorevole Magi (n. 158) è equilibrata, non demagogica e afferma i principi dello Stato di diritto. Questa misura è troppo. Appartiene a una visione positivista che pesa da troppo tempo ed è ora di liberarcene.