Editoriale
Giorgia Meloni ha sopravvalutato la sua influenza. E ora ne paga il conto
Dopo la sconfitta alle Regionali, nel centrodestra le tensioni crescono. Mentre le manganellate di Pisa e Firenze sembrano smuovere l'opinione pubblica. Perché il compito della polizia non è proteggere il governo dal dissenso
Impegnata a costruirsi, nell’indifferenza dei grandi, quella che le sembra una dimensione da statista europea, Giorgia Meloni prova a schivare, tacendo, i contraccolpi delle manganellate di Pisa e Firenze e prende in pieno la batosta della piazza sarda. Paga la protervia che in politica può rivelarsi una dote solo quando si sposa con l’umore del popolo votante. E non quando rivela un errore di calcolo del proprio peso e della propria influenza. Rimedia così la prima sconfitta di un’ascesa finora inarrestabile, accusa le crepe di un terreno che ha calcato a passo di carica, dimezza i voti, patisce il sorpasso dem e deve inchinarsi alla vittoria di un’altra donna caparbia, lontana dallo stereotipo che la sorella d’Italia ha propinato agli italiani.
Ora deve fare i conti con una destra di governo, la sua, che contrabbanda all’estero per il rassemblement dei conservatori ed è invece un’accozzaglia eterogenea di istanze, interessi, affari, pulsioni in cui, mentre si consuma l’attacco sistematico ai diritti, convivono i muscoli del capitano e gli sketch da Sora Lella. Credeva di fare del detestato sindaco di Cagliari il cavallo vincente e lo ha azzoppato chiarendo perfino sui manifesti che l’unica cosa che conta è la scuderia. La sua. Ha insolentito gli alleati, giudicando ininfluente il potere del voto disgiunto alle Regionali. E la mazzata rimediata da Matteo Salvini, che aveva ingoiato il rospo dell’imposizione, lenisce solo in parte la ferita.
La piazza sarda premia l’alleanza tattica di Cinque Stelle e Pd. Ma conferisce ancora una volta a Giuseppe Conte il ruolo di mazziere. Elly Schlein può tacitare chi la dava all’angolo. Prende fiato prima di altre due tornate regionali non altrettanto esaltanti nelle previsioni e consolida la leadership interna per le Europee. Tutti da sciogliere i nodi politici di una coalizione non si sa quanto larga, comunque zeppa, almeno quanto l’altra, di contraddizioni e insidie.
C’è un’altra piazza, però, che Meloni sta sottovalutando. È idealmente quella che si è riunita non solo a Pisa dopo la mattinata di cariche violente in Toscana dello scorso weekend per ribellarsi, pacificamente, all’onda repressiva contro ogni manifestazione di dissenso. L’allarme per l’identificazione di quanti erano andati a deporre un fiore per Navalny a Milano era stato liquidato dall’ineffabile Matteo Piantedosi come una pura formalità. Abbastanza perché i facinorosi che si annidano tra migliaia di divise ligie alla Costituzione non immaginassero legittimo menare le mani alla prima occasione.
Ora farfugliare di errori, di indagini – che sarebbero rapidissime se solo sulle mimetiche ci fosse un codice identificativo – e di regole di ingaggio mai cambiate non sposta di una virgola la questione. E non la sposta neppure la puerile levata di scudi a difesa delle forze dell’ordine di Salvini. Quasi che il problema fossero i bastonati e non la reazione scomposta, esagitata e violenta di alcuni – alcuni – agenti.
La propria certezza democratica la polizia se l’è conquistata in anni di sangue e battaglie civili ma non può nascondere dietro una difesa di corpo la degenerazione, la deriva pericolosa di alcune frange, legittimate a un uso distorto della forza – a senso unico – in virtù di un’accondiscendenza che piove dall’alto. Un’indulgenza contro la quale ha posto un alt perentorio il Capo dello Stato, intervenendo come mai prima d’ora. Perché le forze dell’ordine sono in piazza a garantire che le manifestazioni – comunicate, non autorizzate – si svolgano. Non sono lì a tutelare il governo dal dissenso. Perché, per fortuna, abbiamo una Costituzione. Anche quando un pezzo di istituzioni la ignora.
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