Belle storie
«Mia figlia Luana è morta per produrre un poco di più per l'azienda. E io voglio giustizia»
Emma Marrazzo è la madre di D’Orazio, operaia uccisa da un orditoio manomesso, e ora lotta per la sicurezza sul lavoro. Oltre che per far accertare le responsabilità di quello che definisce un omicidio
Non c’è niente di bello nella storia che vi sto per raccontare. Non ci sarà mai un lieto fine, non un riscatto. Ma voglio raccontarvi questa storia per sostenere la missione di una madre che ha perso la figlia sul lavoro. Luana D’Orazio era un’operaia di ventidue anni ed era la mamma di un bambino di cinque anni.
«Non sono fatalità: si chiamano omicidi, perché, come ad esempio nel caso di mia figlia Luana, è stato manomesso il macchinario, che non aveva nessuna protezione. Non è un caso», mi spiega Emma Marrazzo: «Venti giorni prima della sua morte, Luana aveva raccontato al padre di avere strisciato contro il macchinario. Mio marito rispose tranquillizzandola sul fatto che non stavamo più lavorando con le incertezze di sessant’anni fa. Che oggi, grazie alle fotocellule e alle protezioni, non le sarebbe accaduto niente. Ma così non è stato. Voglio giustizia e voglio che qualcosa cambi. Non voglio leggi di comodo».
Luana è morta il 3 maggio del 2021 finendo nell’ingranaggio di un orditoio della fabbrica in cui lavorava, a Montemurlo, in provincia di Prato. Lavorava lì da circa due anni, aveva fatto quella scelta per avere una paga sicura anche per dare stabilità al suo bambino. Si era alzata come ogni mattina alle cinque per andare a svolgere il suo lavoro di apprendista. «Quel giorno lei sarebbe dovuta rientrare a pranzo: era il mio compleanno – ricorda la madre Emma – alle 13.40, mentre l’acqua della pasta stava per bollire, sono arrivati due carabinieri a darmi la notizia: mia figlia si trovava all’obitorio».
La signora Marrazzo si batte per il tema della sicurezza sul lavoro, porta avanti le sue istanze, partecipa ai processi, interviene nelle scuole. «Senza la sicurezza, non si torna a casa. Voglio dirlo ai giovani perché le Istituzioni sono assenti e, mentre i responsabili patteggiano o si salvano, in un modo o nell’altro, con attenuanti e con sospensioni della pena, il nostro, di noi famigliari, è un ergastolo a vita. Ci vogliono pene gravi o gravissime».
«Non si può immaginare il dolore di una mamma che perde un figlio. Non passa, aumenta. Mi aggrappo a mio nipote, non ricordo più com’ero prima di quel giorno. Luana riempiva la casa di gioia, mi manca in tutto. Quella porta non si apre più e così la ritrovo nei ricordi e nel suo cellulare, dove riascolto i suoi audio. Mi manca andare in giro con lei, condividere. Quando riscuoteva lo stipendio era felice e mi portava subito fuori. Aveva tempo per tutti, anche dopo il lavoro. Con suo figlio, con me, con le amiche, con il suo compagno: trovava il tempo per amarci tutti. Non è giusto andare a lavorare per produrre quel poco di più per l’azienda e perdere la vita, lasciare un figlio orfano. I sindacati devono unirsi tutti. Non ho mai ricevuto una lettera da parte dell’azienda e il giorno del funerale hanno lasciato aperta la fabbrica. Non voglio vendetta, ma dare un segnale chiaro».
Sono passati diversi anni, ma di lavoro si continua a morire, come ha scritto Raffaele Bortoliero nel libro “Non si può morire di lavoro – Storia di giovani vite spezzate”. L’autore è impegnato a promuovere la sicurezza sui luoghi di lavoro raccontando le storie di giovani, alcuni studenti lavoratori, che hanno perso la vita lavorando e che nessun Paese civile dovrebbe dimenticare. Così come non si dovrebbero dimenticare le loro famiglie, abbandonate al loro dolore e alla rassegnazione.