La lettera
«Viviamo un'ondata di malaffare. Non è una nuova Tangentopoli: è molto peggio»
Le inchieste sulla corruzione hanno allontanato i cittadini dalla politica. E il non voto finisce per generare un circolo vizioso, lasciando potere a cacicchi e capibastone. Serve uno scatto di orgoglio collettivo
Caro direttore,
quando Aldo Spinelli, per difendersi dalle accuse dei pm che indagano sul giro di mazzette al porto di Genova, s’è lamentato di avere pagato e pagato Giovanni Toti, che però non sempre faceva ciò che gli veniva chiesto, mi è tornata alla mente una stagione lontana, giusto trent’anni fa, quando un po’ di imprenditori, per paura di finire inghiottiti da “Mani pulite”, cominciarono a lamentarsi di avere dato soldi a ministri e partiti per assicurarsi lavori pubblici che in realtà esistevano solo sulla carta. Grazie alle loro confessioni l’inchiesta di Milano divenne slavina.
Verrebbe allora da dire che nulla è cambiato, che sta per sommergerci un’altra ondata di malaffare, che Tangentopoli è per sempre, anche perché subito prima di Genova sono stati scoperchiati perversi intrecci politica-affari a Bari, Torino, Palermo… Peraltro si evocarono gli stessi fantasmi anche quando cinque anni fa, a Milano, ventotto persone furono arrestate e 95 indagate per associazione per delinquere, collusioni con cosche mafiose, abuso d’ufficio, finanziamento illecito ai partiti e corruzione, tutto al fine di spartirsi grassi appalti per lo smaltimento dei rifiuti; contemporaneamente venti tra imprenditori e politici finivano sotto indagine a Catanzaro e altri quattordici a Palermo, di cui quattro arrestati, anch’essi accusati di smazzettamenti vari.
Eppure no, non era allora e non è oggi una nuova Tangentopoli, però per certi versi è peggio. In passato, per esempio, imprenditori e brasseur d’affaires dovevano svenarsi per conquistare i favori dei partiti; oggi, a quanto pare, bastano pochi spiccioli, un giro in yacht o poche fiches da spendere al casinò per farsi un amico. Ieri, lo scoprirono le inchieste, intorno ai grandi affari pubblici era stato messo in piedi un efficiente sistema nazionale. Poi però, come ricorda Rino Formica, fu commesso l’errore di decentrare la ricerca delle risorse e da allora tutti si sono sentiti autorizzati a farsi i fatti propri. Da qui la sua icastica sintesi: «Il convento è povero, ma i frati sono ricchi». Se ieri, poi, era necessario procurarsi molti soldi per fare politica, oggi molti usano la politica per fare soldi. Una mano l’ha data anche il recente via libera ai finanziamenti privati («tutti tracciati», si difende infatti il presidente della Regione Liguria) che spesso però, sospettano i pm, non sono affatto «liberali», ma mascherano atti di corruzione propria o impropria.
Sono passati trent’anni. Fatti di molte speranze e altrettante delusioni. I magistrati di Milano, e chi è venuto dopo di loro, pensavano di dare un contributo importante alla moralizzazione del sistema, ma così non è stato, anzi si teme che inchieste e processi abbiano paradossalmente contribuito alla delegittimazione di partiti e istituzioni, anche perché i politici sott’accusa rispondono cercando di delegittimare a loro volta il lavoro della magistratura.
D’altra parte, le inchieste hanno risvegliato diffusa indignazione, ma anche allontanato i cittadini dalla politica spingendo molti a rifugiarsi in facili populismi o nell’astensione, alcuni addirittura a svendere la scheda elettorale per poche decine di euro: è successo di recente in Puglia. Ma il non voto, persa ogni valenza di gesto di protesta, finisce per favorire altra corruzione perché lascia mano libera a capibastone, ras e cacicchi locali, campioni del consenso clientelare. Per fermare la valanga occorrerebbe un atto di orgoglio collettivo, una generale corsa civile a riappropriarsi della democrazia del voto e della vita politica. E molto ottimismo per sperare che accada davvero.