La scelta del New York Times de "L'amica geniale" come miglior libro dell'ultimo quarto di secolo è stata accolta con risentimenti e invidie. Ed è la stessa strategia che usano i populisti per annichilire chi è più visibile

Fra il 1956 e il 1957, Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini furono protagonisti di una lunga polemica, certamente dura, ma importante e persino bella. Citarla non è nostalgia dei tempi in cui gli intellettuali dialogavano invece di mettere il broncio contro il New York Times. È, semmai, provare a capire come quel fastidio affondi nella stessa sostanza che sta portando alla trasformazione di Donald Trump in eroe epico alla House of The Dragon.

 

La settimana scorsa, dunque, è stata fitta di discussioni che riguardano la letteratura: in primo luogo per la rivelazione della figlia di Alice Munro, Andrea Robin Skinner, delle molestie subite da bambina dal patrigno Gerald Finner, secondo marito di Munro. Il resto della famiglia, informata, mise tutto a tacere. Alice conosce la verità solo quando Andrea, ormai ventiduenne, gliela rivela. Lascia Finner, poi però torna da lui, mettendo in secondo piano sua figlia, perché amava quell’uomo.

 

Giustamente, Andrea rivendica il diritto di unire questo atroce tassello alla biografia della madre, morta a maggio. Meno giustamente, lettrici e anche scrittrici scambiano quel diritto di figlia accantonata e le ombre di una scrittrice che di ombre ha sempre scritto, con la necessità di condannare la biografia assieme ai libri. Se una donna che scrive non è di specchiata moralità, allora non va letta.

 

Neanche il tempo di sbigottire per le fascine accatastate sul rogo, che un’altra scrittrice catalizza su di sé, anzi, sul suo libro, ulteriore sdegno: capita infatti che il New York Times, in un gioco che ha coinvolto molti autori e autrici, scelga il miglior romanzo del primo quarto di secolo.

 

È L’amica geniale di Elena Ferrante, appunto: un romanzo italiano che ne supera molti altri, indubbiamente bellissimi. Se qualcuno si aspettava entusiasmo fra i letterati di casa nostra, sbagliava di grosso. L’enorme successo di Ferrante è stato quasi sempre guardato con sospetto in Italia: per scoprire chi si celasse dietro l’eteronimo, sono state condotte inchieste puntigliose che includevano visure catastali e analisi della denuncia dei redditi, neanche si trattasse di provare l’evasione fiscale di Donald Trump, sempre lui.

 

Non è una faccenda di invidia, o almeno non solo. Le polemiche che massacrarono Elsa Morante dopo l’uscita de La Storia e la terribile accoglienza del Nobel a Grazia Deledda dovrebbero pur dirci che siamo bravissimi nel giudicare il successo altrui come svilente per noi, anziché come fonte di arricchimento per ognuno.

 

È esattamente su questo che hanno sempre puntato i populisti come Trump: e questo è il frutto velenoso di anni dove non è più soltanto il centro a vacillare, ma i milioni e anzi i miliardi di frammenti che provano a fare di se stessi un centro e soprattutto a vendersi ad acquirenti che nello stesso istante stanno provando a vendere sé stessi.

 

Per questo, la cosa preziosa di oggi è Fare mondi, Vademecum per Emissari di Ian Cheng, pubblicato da Timeo. Cheng è un artista visivo. Sostiene che il Wordling, il creare mondi nelle storie, «è un’attività che ha bisogno della collaborazione di tutti». «Un Mondo – dice – incentiva i propri membri a mantenerlo in vita». È esattamente il contrario di quanto viene fatto oggi, quando i membri di un (piccolo) mondo cercano di annichilire chi fra loro è più visibile.