Resistenti
Così Milano è diventata regina d’emarginazione
La morte di Ramy, le zone rosse. La città predica sicurezza, ma è solo razzializzata e securitaria
Perché Ramy e Fares fuggivano? Perché i giovani delle periferie, soprattutto se arabi e neri, sanno che un fermo significa spesso abusi, violenza, forse la morte. Altro che infrazione stradale», ha scritto il Coordinamento Antirazzista Italiano che ha chiamato le manifestazioni di Milano per chiedere giustizia e verità sulla morte di Ramy Elgaml e sul ferimento di Fares Bouzidi. Ramy è morto nel capoluogo lombardo lo scorso 24 novembre durante un inseguimento da parte delle forze dell’ordine. I commenti che vengono dalle volanti sembrano imitare un videogioco. L’accanimento verso persone razzializzate va inserito nel contesto di nuove politiche securitarie e di una città che tenta d’imbellirsi per le Olimpiadi, ormai regina di esclusione e marginalità sociale.
Da Capodanno fino ad almeno marzo 2025 su Milano incombono varie “zone rosse” in cui si applica il divieto di «stazionamento alle persone che assumono atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti, e siano già gravate da precedenti penali per alcuni tipi di reati» per assicurare «la sicurezza urbana e la piena fruibilità degli spazi pubblici da parte dei cittadini». Così la profilazione razziale acquisisce legittimità e solidità. È un modo di affermare che ci sono cittadini di serie A e di serie B, che possono abitare qui in maniera diversa. Che poi “Abitare stanca”, l’ha scritto bene Sarah Gainsforth (Effequ, 2022). Soprattutto se quella città non è pensata per noi.
Ma, poi, come si diminuisce la microcriminalità senza lotta alla povertà? Come si sconfigge la delinquenza segregando le persone a basso reddito in case-dormitorio così da ridurle a manodopera fatta di colf, camerieri, ecc.? Senza però poter vivere dignitosamente, partecipare alla vita sociale e politica, anzi sotto il ricatto di documenti fragili e sfruttamento. È facile accogliere le persone migranti nella società solo quando queste rientrano nella retorica del “migrante buono”. Quando, invece, le condizioni di una presunta integrazione sono inesistenti e il fatto che decretino vita o morte non è certo democratico. È imbarazzante scadere nella narrazione dei “bravi ragazzi che si fermano ai posti di blocco”, mentre, da persone bianche, della violenza istituzionale e poliziesca sappiamo poco e niente. Può essere utile sostare in una stazione centrale di qualche città italiana e rendersi conto di quanto più spesso siano fermate dalle forze dell’ordine le persone non-bianche.
A Torino, Bologna e Roma le manifestazioni per Ramy e Fares sono state accese e sono sfociate in diversi fermi. Il regime securitario e la gentrificazione facilitano l’e- scalation di un conflitto metropolitano. La famiglia di Ramy ha chiesto di non strumentalizzare la sua morte per fini politici, di manifestare in maniera pacifica. È una volontà legittima. Tuttavia, all’attenzione sulle parole della famiglia si può rispondere: «Non strumentalizzatene il lutto per delegittimare la rabbia contro il sistema che ha ucciso Ramy». Perché la morte di un corpo politico in maniera più che politica riguarda intere comunità che ogni giorno sopravvivono agli abusi delle forze dell’ordine. E al razzismo di Stato che, dal Mediterraneo ai Cpr, uccide le persone in movimento. Si auspica «che la giustizia faccia il suo corso», ma forse c’è qualche intoppo in tale fluire? Perché la giustizia in Italia non è ancora per tutt*. Nel frattempo, ascoltiamo Baby Gang: «Finché non cambia questa società / Rimango lo stesso ribelle di sempre».