Opinioni
16 ottobre, 2025Tra masse plaudenti, leader carismatici e istituzioni fragili si sgretola la sovranità popolare
Qualcosa si è rotto nel rapporto tra cittadini e istituzioni. Mentre il linguaggio istituzionale richiama i principi della sovranità popolare e della rappresentanza, la prassi politica se ne allontana. La democrazia resta la cornice, ma le dinamiche al suo interno ricordano sempre più quelle della folla impulsiva, identitaria, polarizzante. Nella “Psicologia delle folle” (1895), Le Bon analizzava l’irrazionalità del collettivo: l’individuo, immerso nella massa, perde autonomia e spirito critico, diventando ricettivo alla suggestione e incline a proiettare la propria volontà su leader carismatici.
Una dinamica che oggi si riflette nei parlamenti, dove il confronto tra idee lascia spazio alla contrapposizione, agli slogan, alla lealtà partitica che sostituisce la deliberazione. Anche Freud, in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), osservava come, nei contesti collettivi, il leader finisca per occupare il posto della coscienza individuale, assumendo una funzione simbolica quasi paterna. Il consenso si costruisce meno su idee e programmi, più su un’identificazione emotiva che trasforma il leader nell’incarnazione dell’interesse del popolo.
È parte di un processo più ampio: l’erosione del legame tra cittadini e istituzioni, alimentata dalla crisi dei partiti e dalla diffusione di forme di partecipazione “immediata” che, pur promettendo inclusione, semplificano e incentivano giudizi istantanei, più emotivi che riflessivi. I social media amplificano questa tendenza, legittimando l’idea che il giudizio democratico debba esprimersi in tempo reale, sospinto dall’indignazione. In questo contesto, il leader non rappresenta né media, ma si rivolge direttamente al popolo, aggirando i corpi intermedi e costruendo consenso per contrapposizione.
L’altro diventa nemico, e il progetto politico cede alla captatio benevolentiae. Non si tratta di derive episodiche. Sono tendenze trasversali, egualmente visibili in maggioranze e opposizioni, in molte democrazie occidentali: dall’America post-trumpiana a diverse realtà europee. Stessi toni, stessi stili comunicativi, stessa preferenza per il conflitto spettacolare rispetto al confronto razionale. La conseguenza più grave è lo svuotamento della sovranità popolare, ridotta a formula retorica. Da qui l’appello al “governo dei competenti”, alla tecnocrazia come risposta alla crisi politica. Ma è un’illusione pericolosa: anche l’esperto incarna una visione parziale. Sostituire il carisma con la tecnocrazia è solo un’inversione di paradigma. La crisi è prima di tutto culturale: crisi del pensiero complesso, della capacità di gestire la pluralità senza ridurla a slogan. È anche crisi del tempo politico: la pressione elettorale e la rincorsa al consenso immediato impediscono visioni di lungo periodo.
Una democrazia senza profondità rischia di diventare solo esercizio di visibilità. La via d’uscita passa da una rigenerazione della cittadinanza: educazione, pensiero critico, cultura della responsabilità. Una democrazia autentica non si fonda né sulla passività delle folle né sull’isolamento delle élite, ma sulla partecipazione consapevole dei cittadini. La sfida è ricostruire uno spazio pubblico in cui razionalità, giudizio e responsabilità tornino a essere valori condivisi e la democrazia possa recuperare la propria vocazione di essere governo del popolo, per il popolo e con il popolo.
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