Opinioni
22 ottobre, 2025È innegabile che la perdita complessiva incida maggiormente dove il costo della vita è più alto
Uno dei principali problemi dell’attuale congiuntura economica italiana è la perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni dopo lo shock inflazionistico del 2021-22. Il taglio delle retribuzioni alla fine 2022 era di circa il 12-13 per cento rispetto a inizio 2023. Dall’inizio del 2023 le retribuzioni hanno cominciato a crescere più rapidamente dei prezzi, ma a metà 2025 erano ancora sotto del 7 per cento e la manovra annunciata pochi giorni fa dal governo non rimedia certo a questa situazione, seppure il taglio dell’Irpef vada nella direzione giusta nel moderare il problema.
Tra le categorie più penalizzate da questo taglio delle retribuzioni rispetto al 2021 ci sono i dipendenti pubblici. A dire il vero, il problema per questi lavoratori è di più lungo termine. Il rapporto tra retribuzioni dei dipendenti pubblici e quelle dei dipendenti privati, dopo aver raggiunto un massimo nel 2009, ha iniziato una discesa tendenziale che lo aveva portato già nel 2021 sui livelli minimi di almeno trent’anni. E gli aumenti avvenuti da allora non hanno certo migliorato la situazione.
All’interno dei dipendenti pubblici, poi, ci sono quelli che lavorano nelle aree dove il costo della vita è più alto. Un recente lavoro dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani ha concluso che, sulla base dei dati Istat sul livello dei prezzi di un paniere minimo di risorse, il costo della vita affrontato da chi vive a Milano è di oltre il 70 per cento più alto di quello affrontato da chi vive in una città lucana con meno di 50.000 abitanti. Tra questi due estremi, ci sono tante situazioni intermedie. In un piccolo comune lombardo il costo della vita è superiore a quello di un piccolo comune lucano del 43 per cento. Il costo della vita a Milano è superiore a quello di Roma solo del 10 per cento, ma la differenza rispetto a Napoli e Palermo è del 50 per cento. In media, le aree metropolitane sono più costose dei piccoli comuni dell’11 per cento, ma con differenze marcate da regione a regione. Queste differenze comportano che, a parità di attività lavorativa e di retribuzione in euro, la retribuzione reale, ossia in termini di potere d’acquisto, di chi vive in aree più costose è molto inferiore a quella di chi vive altrove. Il che implica che esista una forte penalizzazione a lavorare nel settore pubblico dove il costo della vita è più alto. Vivere in una “gabbia salariale” a costo elevato non è certo piacevole.
Non deve quindi sorprendere il fatto che sia difficile trovare dipendenti pubblici disposti a trasferirsi in quelle aree. Ho usato il termine “gabbie salariali” in modo, ovviamente, provocatorio, dato che i sindacati usano questo termine proprio per criticare qualunque forma di compensazione per i lavoratori che operano in certe aree del Paese. Lo slogan abituale è che «a parità di lavoro, la retribuzione deve essere la stessa». Il problema è che una retribuzione in euro identica comporta una pesante diversità nella retribuzione in termini di potere d’acquisto. E siccome i dipendenti pubblici, come tutti, non mangiano euro, ma le cose che si comprano con gli euro, se col tuo stipendio riesci a comprare meno cose, sei svantaggiato rispetto a chi vive in aree del Paese dove il costo della vita è più basso. La vera uguaglianza si raggiunge solo compensando chi vive dove le cose costano di più, proprio per evitare gabbie salariali di fatto.
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