Opinioni
31 ottobre, 2025Non una stampa imbavagliata, ma una stampa selezionata. Nel Paese che si vorrebbe abituare al silenzio
Solo una smodata ipocrisia può tenere insieme la solidarietà a Sigfrido Ranucci per l’ordigno piazzato davanti casa e lo stillicidio di delegittimazioni e azioni giudiziarie a cui è sottoposta la sua squadra da parte del potere e dei suoi obbedienti sottopancia. La stridente contraddizione tra le manifestazioni pubbliche a difesa del giornalista e la multa del garante della privacy a Report per la diffusione degli audio dell’ex ministro Sangiuliano e la moglie – con il contorno della visita preventiva nella sede di FdI di uno dei componenti dell’Authority – lascia cadere ogni maschera.
Il potere riesce a denudarsi da solo. E sarebbe già ridicolo così. Se non fosse la rappresentazione di una deriva inarrestabile.
Blatera di libertà di informazione e di giornalismo d’inchiesta sotto assedio e poi lascia che squadre di incursori in grisaglia facciano a pezzi l’una e l’altro. Con metodi meno tonanti e medesima valenza intimidatoria.
Al Palazzo non piace il controllo. Anzi pretende di sfuggire al minimo sindacale della dialettica pubblica. Che è fatta di domande. Quanto più impertinenti è possibile. E di risposte. Che dovrebbero essere puntuali, argomentate e circostanziate. Il potere fugge, si sottrae. E poi si sceglie gli interlocutori. Più accomodanti e meno insolenti. Non una stampa imbavagliata, ma una stampa selezionata.
Perché il potere pretende di delimitare anche il perimetro dell’interesse pubblico. E dunque della sovranità.
Nel gioco di specchi della politica, alla denuncia della segretaria dem Elly Schlein sulla «democrazia in pericolo», Giorgia Meloni ha replicato in Parlamento che non c’è alcun rischio per la libertà e che affermazioni del genere gettano «fango e ombre sulla Nazione», cioè l’Italia.
Tuttavia, quanto a libertà di stampa, non è proprio rassicurante saperci al 46° posto, secondo Reporters Sans Frontières. E non siamo lì per caso. Non un incidente ma il ritratto di un Paese che si abitua al silenzio. Perché un quarto del totale delle Slapp (Strategic litigation against public participation), ovvero azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica, intentate contro i giornalisti europei nasce qui. Querele temerarie per diffamazione e privacy violata al ritmo di una ogni tre giorni, moltiplicate per tutti i tribunali italiani, che, insieme con le citazioni civili, diventano un formidabile strumento per sfibrare, silenziare e annichilire.
Tanto più che questa marea di cause si abbatte su un corpo giornalistico fatto in larghissima parte ormai – e soprattutto nel cosiddetto giornalismo d’inchiesta – di freelance a basso reddito, garanzie al minimo e tutele inesistenti. La forza della minaccia, anche solo dell’incubo di processi infiniti, fiacca e intorpidisce fino a spegnere. E scava intorno una fossa di diffidenza. Una forma di censura, neppure troppo sottile. Non ti mette in galera, ma in ginocchio.
E poi ci sono avvertimenti, minacce, aggressioni, lettere anonime, proiettili. Botte e piombo. Che colpiscono indiscriminatamente chi ha redazioni forti alle spalle e chi è solo, esposto e senza apparati a difenderlo. Ossigeno per l’informazione ne ha contati 7.555 in 18 anni di episodi del genere. Nel Paese che ha avuto 30 giornalisti uccisi per il proprio mestiere, sui fronti di guerra e nelle trincee di casa nostra. E ne ha troppi sotto scorta.
Così la libertà di stampa si spegne due volte: sotto le minacce di chi la vuole muta e i diktat di chi la vuole conciliante. Non serve il bavaglio, che pure arriva quando occorre. Basta una lista di inviti.
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