Opinioni
18 novembre, 2025Cancellato il green deal, l’Europa si vota a un’economia di guerra. Il contrario di quel che serve
A che punto siamo e cosa possiamo aspettarci? Si è aperta lo scorso 10 novembre la Cop30 a Belem, in Brasile. Si concluderà il 21. L’Espresso ne ha parlato diverse volte. Secondo i rapporti dell’Unfccc – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – i contributi determinati a livello nazionale dei piani climatici presentati sono completamente insufficienti per rispettare gli impegni presi nelle precedenti conferenze delle parti sul clima. L’umanità è stata da mesi avvertita: sono falliti gli obiettivi climatici fissati alla Cop21 di Parigi per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5° in questo secolo. Avevamo detto che non potevano essere i contributi “volontari” dei Paesi la strada attraverso la quale impediamo il collasso climatico. Come dire a un alcolista di regolarsi da solo quando beve. Servono impegni vincolanti, cronoprogrammi puntuali, controlli di organismi sovranazionali, investimenti adeguati, il coinvolgimento di cittadini sui territori, reti sociali e istituzioni locali, per centrare l’obiettivo della riconversione ecologica.
E l’Europa? Non è ancora stato trovato un accordo sui target climatici per il 2040. Come sempre arriva divisa da quando ha imboccato la strada del riarmo. In nome della competitività e della sicurezza. Uno slogan falso più che una regola. La sicurezza la garantiscono il lavoro, la salute, l’accesso alle risorse, la partecipazione, l’istruzione, l’aria pulita. Le attuali politiche di sviluppo non l’hanno fatto, per questo vanno cambiate. Invece, in Europa sembra prevalere l’approccio negazionista ideologico dei governi italiano, polacco, bulgaro, ungherese, rumeno. Mentre Von Der Leyen, dopo aver cancellato il green deal europeo, si appresta a riconvertire il Continente a un’economia di guerra che farà felici le imprese delle armi e del fossile.
Il tempo stringe e non vediamo dibattiti sulla crisi climatica, su quanto questa si traduca in un peggioramento delle nostre vite e su come uscirne. L’attenzione a Belem sarà rivolta più al gruppo di economie emergenti dei Paesi che fanno parte dei Brics, in special modo a Brasile e Cina, gli unici che potrebbero sostituirsi all’assenza di una leadership globale, per provare a rivitalizzare ciò che resta del multilateralismo e della cooperazione internazionale.
Ma la speranza sarà rivolta più all’incontro della Cupula dos Povos, il Summit dei Popoli, iniziato lo scorso 12 novembre all’Università federale del Parà. È lì che movimenti popolari, reti e coalizioni di tutto il mondo si sono dati appuntamento per rafforzare l’azione dal basso e far convergere le istanze che mettono insieme le agende socio-ambientali, anticapitaliste, anticolonialiste, antipatriarcali e antirazziste. Uno spazio plurale e decoloniale che condivide un manifesto denso di proposte efficaci per mitigare gli effetti del riscaldamento del Pianeta.
I movimenti per la giustizia ambientale ed ecologica non chiedono politiche più coraggiose ma altre politiche: il problema è il modello estrattivista che impedisce equità sociale e sostenibilità ambientale. Con buona pace del partito della crescita e della guerra. Lo ribadiamo anche a Roma il 15 novembre, prima la mattina all’assemblea dove convergono tutte le più importanti reti sociali e realtà di movimento e nel pomeriggio a Piazzale Aldo Moro per il Climate Pride. Solo l’irrompere dei movimenti per la giustizia ecologica può cambiare l’agenda politica. Facciamo Eco!
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