Opinioni
2 dicembre, 2025In vista delle Politiche, decisiva l’indicazione del candidato premier. Il rebus delle primarie
«Uniti si stravince» ha promesso Elly Schlein dopo i risultati della Campania e della Puglia, e in effetti le nettissime vittorie di Roberto Fico e di Antonio Decaro segnano un punto importante a favore del “campo largo”, riaccendendo nel centro-sinistra una speranza che sembrava svanita dopo l’impennata dei consensi che ha portato il partito di Giorgia Meloni intorno all’asticella del 30 per cento.
I due successi nelle regioni del Sud non bastano certo a fare previsioni attendibili sull’esito della battaglia che si combatterà tra due anni, nell’autunno del 2027, anche perché il “campo largo” ha vinto solo sei delle 20 elezioni regionali che si sono svolte dopo le ultime Politiche, battendo gli avversari – oltre che nelle due sfide di domenica scorsa – solo in Sardegna e nelle tre regioni storicamente rosse (Emilia Romagna, Umbria e Toscana). Con due risultati superiori al 60 per cento nel Mezzogiorno, il centro-sinistra può però ragionare diversamente, perché la partita delle prossime Politiche appare adesso contendibile. Fino a domenica scorsa non era così.
Ci sono però due ostacoli, e non di poco conto, sulla sua strada. Il primo è la nuova legge elettorale che il governo sta preparando. Giorgia Meloni sa bene che la sua vittoria del 2022 fu agevolata dalla divisione tra Pd e M5S, che consentì al centro-destra di aggiudicarsi quasi tutti i collegi uninominali, ovvero un terzo dei seggi, e dunque vuole cancellare questi collegi. Ovviamente l’opposizione darà battaglia, ma i numeri non giocano a suo favore.
Il secondo ostacolo, ancora più insidioso del primo, è la leadership dell’alleanza. Se, come sembra, la nuova legge elettorale obbligherà le coalizioni a indicare il loro candidato per la guida del governo, il “campo largo” arriverà davanti a un bivio: a chi spetterà il bastone del comando, al Partito democratico o al Movimento 5 Stelle? Tutti, a cominciare da Elly Schlein, sanno che Giuseppe Conte metterà il suo nome sul tavolo, e se non riuscirà a ottenere un’investitura a tavolino pretenderà che decidano gli elettori, con quelle primarie che il Pd ha mandato in soffitta dopo l’elezione di Schlein.
I numeri non giocano a suo favore, visto che nella metà delle regioni in cui si è votato dal 2022 a oggi il M5S non ha superato la soglia del 5 per cento, conquistando solo 33 consiglieri contro i 158 del Pd. Eppure il suo leader è stato abilissimo a tenere sotto scacco Schlein, ottenendo due candidature vincenti (Todde in Sardegna e Fico in Campania) contro le tre presidenze del più forte alleato. Non ha inventato nulla: fa valere il potere dell’ago della bilancia, che negli anni Ottanta portò Bettino Craxi a Palazzo Chigi con un partito dell’11 per cento.
Con una differenza: allora il leader socialista raggiunse quella carica con una trattativa a tavolino, oggi il presidente dei pentastellati punta a ottenere la candidatura a premier con le primarie di coalizione: lo stesso metodo che nel febbraio di due anni fa permise a Schlein di diventare segretaria anche con i voti di molti elettori grillini domani potrebbe permettere a lui di guadagnarsi la leadership con i voti di quei militanti del Pd – non sono pochi – che ancora lo considerano «un punto fortissimo di riferimento dei progressisti». Ma potrebbe, il più forte partito della coalizione, accettare un ruolo subalterno a un alleato minore? È questo, oggi, il dubbio più importante sul futuro prossimo del “campo largo”.
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