Opinioni
5 dicembre, 2025Le parole di Mario Draghi ci richiamano alla responsabilità di amministrare il nostro futuro
Fa riflettere il discorso pronunciato da Mario Draghi all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano. L’ex presidente del Consiglio ha lanciato un doppio appello: ai giovani perché non aspettino che qualcuno spiani loro la strada e all’Europa perché smetta di aver paura delle nuove tecnologie, soprattutto dell’intelligenza artificiale. E non è difficile capire perché. «Se l’Europa non copre il divario che la separa da altri Paesi e aree geografiche nell’adozione delle tecnologie legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale – ha detto – rischia un futuro di stagnazione».
È il tipo di verità che fa rumore perché fotografa l’evidenza: per oltre due secoli il progresso tecnologico ha alimentato il miglioramento del tenore di vita; oggi non c’è motivo di credere che le cose siano cambiate. Eppure, come ricorda Draghi, troppi limiti imposti dalla Ue hanno trasformato la prudenza in un freno. «Il primo passo per riportare l’Europa sulla strada dell’innovazione è cambiare la sua cultura della precauzione, ridurre l’onere della prova che imponiamo alle nuove tecnologie e attribuire al potenziale dell’intelligenza artificiale lo stesso peso che attribuiamo ai suoi rischi».
Parole che fanno da cornice a un concetto decisivo: l’incertezza è inevitabile quando ci si affaccia a una rivoluzione. L’errore è paralizzarsi. Negli ultimi vent’anni siamo passati dall’essere un Continente che cercava di ridurre il divario con gli Stati Uniti a uno che ha progressivamente alzato barriere all’innovazione. Risultato: quando la produttività europea è scesa a metà del ritmo americano, il divario è nato quasi interamente dal settore tecnologico. E lo stesso schema rischia di ripetersi con l’intelligenza artificiale.
Quello di Draghi non è un allarme accademico: è un avvertimento politico. E dovrebbe scuotere governi troppo spesso concentrati sulle micro-tattiche per ottenere il consenso e mostrare loro l’abisso che si sta creando sotto i loro piedi.
Il secondo spunto di riflessione ci arriva questa settimana dall’articolo di Marco Montemagno su questo numero a pagina 84. Che ci segnala la profezia di Elon Musk su un futuro senza lavoro obbligatorio: «Tra meno di vent’anni lavorare sarà opzionale, quasi un hobby». C’è chi lo prende come una previsione visionaria e chi come l’ennesima provocazione di un uomo abituato a spostare sempre un po’ più avanti il confine del dibattito. Ma il punto non è se abbia ragione: è se noi siamo pronti.
Perché la domanda che resta sospesa è enorme: che cosa diventa una società quando il lavoro smette di esserne il baricentro? E come dovremo cambiare il primo articolo della Costituzione italiana che afferma «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»?. Musk, con la disarmante naturalezza, che spesso accompagna i suoi annunci, trasforma un tema tecnico in un interrogativo collettivo, non privo di risvolti etico-politici. E stavolta non si tratta di futurologia da salotto: l’automazione cambierà davvero il mondo del lavoro nei prossimi anni, e ignorarlo sarebbe irresponsabile.
Il rischio non è solo economico. È identitario. Ci saranno persone capaci di reinventarsi, di costruire senso altrove, e altre che rischieranno di restare sospese, senza ruolo, senza direzione.
La verità è che Europa e Italia si trovano davanti allo stesso bivio: guidare il cambiamento o subirlo. Draghi ci ricorda che il tempo per decidere non è infinito. E noi, per una volta, dovremmo ascoltare.
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