Sono passati 51 anni esatti dal referendum sul divorzio del 13 maggio 1974 – un voto che incise profondamente sulla società e sulla politica italiana – e mancano poco più di tre settimane all’appuntamento con le urne con il quale gli italiani saranno chiamati a votare su altri cinque quesiti referendari. Eppure, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos, non ci sarà partita perché al momento meno del 40 per cento degli elettori ha intenzione di votare.
Naturalmente è possibile che le cose cambino da qui all’8 giugno: nel 1991 molti pensavano che il referendum sulla preferenza unica sarebbe fallito per mancanza di votanti, e invece le cose andarono diversamente. I dati che abbiamo sul tavolo segnalano però che stavolta è assai difficile che il quorum della metà più uno degli elettori venga raggiunto. Il verdetto non arriverà dalle urne, ma dalla diserzione. Dall’assenza. Non è una novità, purtroppo. Ma ogni volta che succede, ci si avvicina un passo in più alla svuotatura di uno degli strumenti più nobili della democrazia. Il referendum abrogativo, introdotto con orgoglio nella Costituzione repubblicana, si sta trasformando in un guscio vuoto. O, peggio, in un’arma spuntata, usata per campagne simboliche, battaglie di principio che non arrivano mai al bersaglio.
E allora la domanda diventa urgente: quanto tempo possiamo ancora permetterci questo gioco al ribasso? Ilvo Diamanti ha scritto giustamente su Repubblica che «il partito degli astenuti non esiste». Ed è vero: l’astensione non è una scelta politica strutturata, non ha leader né programmi. Ma è un segnale forte, inequivocabile. Alle ultime elezioni europee, il non-voto ha superato per la prima volta il 50 per cento. Un elettore su due ha preferito il silenzio al voto. Non è indifferenza, è distanza. È disillusione. È disconnessione tra politica e cittadini. Il referendum, in questo scenario, dovrebbe essere il ponte. Lo spazio in cui la voce del cittadino si riappropria del potere di scelta, senza filtri, senza mediazioni. Ma se continuiamo a mantenere il quorum, quel ponte resta sospeso, come un viadotto interrotto a metà. Perché, paradossalmente, oggi basta restare a casa per annullare il voto di chi partecipa. Il non-voto vale più del voto. Ed è un’anomalia democratica.
La soluzione c’è. Abolire il quorum. Semplicemente. Se la maggioranza degli italiani non è interessata al quesito, è giusto che decidano quelli che lo sono. Nessuno viene obbligato a votare, ma chi lo fa deve contare. Responsabilizzare l’elettorato significa rimettere al centro l’atto del voto, non svilirlo con un meccanismo che premia la passività. Naturalmente questo cambiamento richiede un contrappeso.
Oggi bastano 500mila firme per indire un referendum abrogativo: una soglia che negli anni è diventata troppo bassa, troppo permeabile a spinte demagogiche o iniziative di bandiera. Portiamola a un milione. Rafforziamo il controllo sulla validità delle firme. Digitalizziamo la raccolta. Aumentiamo la trasparenza sui promotori. Una riforma seria del referendum non è un atto tecnico, è una scelta politica e culturale. Serve a restituire senso al gesto di mettere una croce su una scheda. Serve a combattere l’astensionismo non con la retorica del dovere civico, ma con la concretezza di uno strumento che funziona, che incide, che cambia davvero le cose. L’8 giugno rischia di essere (di nuovo) la fotografia di un fallimento annunciato. Ma può anche essere l’occasione per voltare pagina. Per riportare il referendum al centro del gioco democratico, non ai suoi margini.