Il Fantapapa, i quiz sul conclave, i menù dei cardinali e il gabbiano: la copertura mediatica data alla cronaca vaticana è stato lo specchio di un tempo dal pensiero decadente

Se anche i pontefici diventano vittime di show e di meme

Ci sono un paio di cose che possiamo ripescare dai decenni alle nostre spalle: la prima appartiene alla filosofia calcistica dell’allenatore Zdeněk Zeman e in particolare al motto «Non importa quanto corri, ma dove corri e perché corri». Bene, nelle ultime settimane si è corso moltissimo: il riferimento è alla morte di papa Francesco e all’elezione di Leone XIV. Perché non è stata solo la copertura mediatica a essere senza precedenti, ma anche la modalità con cui si è svolta.

 

Insomma, importa dove corri e perché corri, avrebbe detto Zeman accendendo la centesima sigaretta della giornata: la corsa in questione ha comportato non solo meme di ogni provenienza e livello e non solo i tremendi video realizzati con l’Ia dove lo spirito di Bergoglio gioca con Gesù a trasformare l’acqua in vino (segue selfie con paradisiaci sorrisi). 

 

Fosse stato solo questo, sarebbe la constatazione di quanto avesse ragione Guy Debord sullo spettacolo che ci divora. Stavolta, però, lo spettacolo è stato, si perdoni il gioco di parole, diabolico: abbiamo dunque avuto il Fantapapa, i quiz sul conclave, le infinite cronache sulla pasta alla carbonara e sui gelati al pistacchio gustati dai cardinali prima di chiudersi nella Cappella Sistina e poi ogni possibile variazione sul tema del gabbiano accanto al camino da cui provenivano le fumate, come se in una città che da anni è invasa dai gabbiani vederne uno o due o tre in Vaticano fosse faccenda degna dell’interesse degli auguri e degli aruspici dell’antica Roma (che però, vista l’epoca, traevano presagi soprattutto da cornacchie e corvi).

 

Ora, i paragoni con il passato non sono mai utili. Però, ed ecco il secondo punto, se ripensiamo alla morte di Giovanni Paolo II e all’elezione di Benedetto XVI, è difficile non pensare che sono stati gli scrittori a ragionare sui Papi: lo fece Giuseppe Genna nel 2005, ne “L’anno luce”, e la morte di Wojtyla echeggiò in diversi romanzi e i romanzi richiedono qualcosa di diverso dal grande carosello degli ultimi giorni.

 

Proprio in queste ore, a proposito, è in corso il Salone internazionale del Libro a Torino che ha come tema “Le parole tra noi leggere”: l’omaggio è al romanzo che Lalla Romano scrisse nel 1969 e con cui vinse il premio Strega, nonché alla poesia di Eugenio Montale, “Due nel crepuscolo”, da cui Romano trasse il titolo. Ecco: oggi verrebbe voglia di cambiare aggettivo e di auspicare invece parole pesanti, che non scorrano via e che si ancorino davvero a quel che ci accade intorno. E basterebbe leggere ciò che racconta la politologa Arianna Farinelli sulle riunioni clandestine dei docenti americani per difendersi da Donald Trump per rendersi conto che, a forza di distrarci con i meme, stiamo finendo in guai grossi.

 

Per questo, la cosa preziosa di oggi è “Sotto l’inesauribile superficie delle cose” di Niccolò Scaffai, che esce per Aboca. Sono sei lezioni sulla profondità, intesa come spazio sotterraneo e sottomarino, e sul suo legame con l’Antropocene, laddove l’attività umana è così intensa da incidere sui processi geologici, alterando clima e struttura del Pianeta: ma è anche un’esplorazione su come spazio e tempo profondo incidano sull’immaginario, grazie alle opere di Calvino, DeLillo, Ghosh, Carson e ai film di Christopher Nolan. Sarebbe bello che quel paradigma della profondità diventasse nostro e che le parole, infine, diventassero, se non pesanti, almeno profonde, perché al momento se ne ascoltano e leggono davvero poche.

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