All’irrilevanza in cui il governo ha confinato l'Italia fa da contraltare l’autorevolezza del capo dello Stato

Chi rappresenta davvero il Paese in questi tempi orribili

Oltre la cortina della propaganda, tra i fumi di reboanti proclami, l’Italia si è auto-confinata in una sostanziale irrilevanza nello scacchiere europeo, figurarsi sulla ribalta mondiale. L’urticante sgarbo dei “volenterosi” al nostro governo sulla partita ucraina, cui è seguita la spasmodica rincorsa della premier a ritagliarsi una lama di luce riflessa, è il rovescio degli imbarazzati balbettii sul massacro di civili inermi in Palestina. Nessuna univoca e perentoria condanna di Netanyahu, nel disagio, largamente condiviso, di dover dar conto del fitto import export di materiali spionistici e militari. 

 

A rimorchio degli umori cangianti di Trump, ci si è illusi di guadagnarne in levatura internazionale, riparandosi sotto un ombrello che si sposta di continuo, lasciandoci alle intemperie. Dalla pioggia dei dazi, per cominciare. Per finire triturati, nello spazio di un post, nell’infernale e assai più oliata fabbrica americana del consenso. È andata così per il tracollo borsistico del 23 maggio seguito all’annuncio via X di Trump, giunto a soli quattro giorni dal colloquio Meloni-Vance che aveva dato fiato alla réclame nostrana. L’idea di far dello Stivale il ponte in grado di collegare quel che resta dell’Occidente sembra più il trasognante desiderio di ambiziosi sedicenti statisti che una concreta possibilità, già surclassata da eventi e Pil sostanziosi.

 

I rapporti ambigui con autocrati di ogni risma, in carica e aspiranti, coltivati con ostinata perseveranza, complice lo spericolato riposizionamento nell’ultradestra di Matteo Salvini, nel Vecchio Continente allontanano dal nostro Paese la valutazione di affidabilità dovuta a chi sa farsi rispettare, in virtù di un pensiero autonomo, ai tavoli che contano.

 

In questo desolante quadro di inadeguatezza, esercita una continua, pressoché quotidiana, funzione supplente in credibilità e autorevolezza il capo dello Stato. Nello stile pacato che gli è proprio, rattoppa, rimedia, ricuce, in un instancabile tour di visite e viaggi. Ammonisce anche, forte di un incrollabile fede europeista che non ha bisogno di cancellature biografiche per diventare credibile. Lo fa, e non è un caso, sulla difesa comune, superando le timidezze, a proposito del ReArm Europe di Ursula von der Leyen, di un Pd alle prese con le urgenze del cortile di casa che consistono nell’evitare strappi per tenere i 5S nel campo largo.

 

Dentro il solco delle proprie prerogative, Mattarella veste panni ora di pompiere ora di ingegnere. Lo ha fatto a novembre dell’anno scorso, ricordando dopo i fatti di Pisa che «l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli» contro gli studenti. E ha poi corretto, ma solo in parte, ad aprile, le norme del decreto sicurezza. Perché, come aveva chiarito l’anno scorso, al presidente spetta promulgare le leggi, non condividerle.

 

Di recente ha trovato il tempo di correggere gli sfondoni della grammatica istituzionale che l’allegra combriccola di Palazzo Chigi gli riserva. Dal ministro Nordio che non lo consulta sulla nomina del capo del Dap, al solito Salvini che, con un tempismo encomiabile sui rimbrotti dell’Anac, inserisce di soppiatto nel decreto Infrastrutture una sbianchettata ai controlli antimafia sul Ponte. Che vive, evidentemente, come un inutile inciampo. 

 

Indirettamente e a suo modo, il capo dello Stato sta lì a dimostrare l’inutilità di avventurose derive presidenzialiste. Intanto perché un argine serve e poi, con questi chiari di luna, è una garanzia che in giro a rappresentare l’Italia siano almeno in due. 

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