L’avidità di Uefa e Fifa, gli investitori dall’estero senza freni. Per salvare il pallone serve un ripensamento

Proprietà straniere e troppe partite: così muore il calcio

La sempre più intensa commercializzazione del calcio (con obiettivi di massimizzazione dei ricavi di breve periodo) mi preoccupa. Ve lo dico da cittadino di orientamento liberal-democratico che ritiene che l’economia di mercato sia il migliore assetto socioeconomico per una collettività. In realtà penso che, nel lungo periodo, questo eccesso di commercializzazione, portando alla disaffezione del tifoso, danneggi il calcio anche dal punto di vista economico.

 

Il tema è molto complesso, per cui mi limito a due considerazioni. La prima riguarda il rischio di un eccesso di offerta calcistica; la seconda la crescente proprietà da parte di entità extra-comunitarie delle squadre europee.

 

Punto primo: il tentativo di massimizzare nel breve periodo le entrate dei club calcistici ha portato a un aumento spropositato del numero di partite giocate. Per un top club, con le nuove competizioni Fifa e Uefa, si arriverà a oltre 60 partite l’anno, secondo l’Associazione Nazionale Calciatori. Questo eccesso di offerta è rischioso. In un mercato concorrenziale, la quantità prodotta è determinata dal mercato stesso: l’equilibrio si trova quando domanda e offerta si incrociano. Ma il calcio non funziona nello stesso modo. 

 

La quantità offerta dipende, come accadrebbe in un monopolio, dalle decisioni di chi amministra il calcio, la Uefa e la Fifa in primis. Si tratta di decisioni amministrative, seppure influenzate dalle pressioni delle società di calcio. Ed è allora legittimo chiedersi se la quantità offerta sia quella giusta. Un aumento dell’offerta non determina necessariamente un aumento dei ricavi: il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per assorbire una maggiore offerta tende a scendere. Non è solo questo: data la limitata disponibilità di talenti calcistici, un aumento dell’offerta può causare un peggioramento della qualità del prodotto calcistico, che si manifesta, per esempio, in una più elevata percentuale di infortuni, compreso quello dei top player che la gente vuol vedere giocare. Alla lunga, il tifoso potrebbe allontanarsi da uno sport che ti inonda di partite, la cui qualità è abbassata dall’eccesso di infortuni.

 

Passiamo al secondo punto: la crescente proprietà delle squadre di calcio da parte di investitori extra-europei. Nel campionato di serie A 2024-25 più della metà delle squadre era di proprietà straniera (in gran parte americana). Lo stesso vale, più o meno, anche per gli altri principali campionati europei, quelli di Francia, Spagna e Inghilterra (la Germania fa eccezione per i vincoli alla proprietà straniera): metà dei club sono ormai extracomunitari. Di questo non possiamo certo dare la colpa agli americani. Pesa piuttosto la dimensione limitata delle nostre imprese rispetto a quelle d’Oltreoceano (e questo è un problema che va ben oltre il calcio, basta leggere il rapporto Draghi). 

 

L’aumento della dimensione economica delle società di calcio ha reso infatti più difficile per un singolo imprenditore europeo impegnarsi come faceva, per esempio, un Moratti. Ma perché dieci imprenditori italiani non possono fare, unendosi, quello che un fondo americano può fare? Se non saremo capaci di una tale aggregazione, continueranno a prevalere le proprietà di fondi americani, spesso ispirate da obiettivi di profitto di breve periodo. Alla lunga anche questo può danneggiare il nostro calcio.

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