Torno sul tema della debolezza dell’Unione Europea causata dalle sue divisioni interne. Lo faccio alla luce di tre recenti episodi che ci devono far riflettere sul futuro del nostro Continente. Il primo riguarda la spesa militare. Il 7 gennaio scorso il presidente Trump, nella stessa conferenza stampa in cui non escludeva l’uso della forza per impossessarsi della Groenlandia, disse che i Paesi europei dovevano spendere per la difesa il 5 per cento del Pil. Non si sa da dove viene quel 5 per cento, ma nel giro di pochi mesi un entusiasta Rutte, segretario generale della Nato, fa sua la proposta e gli europei si adeguano alla richiesta di più che raddoppiare la spesa rispetto al livello attuale, con la sola concessione, da parte dell’amministrazione americana, che un 1,5 per cento del Pil possa andare in spese semplicemente correlate alla difesa e alla sicurezza (una definizione ancora non del tutto chiara). Dopodiché Rutte invia al presidente americano un messaggio adulatorio a dir poco imbarazzante che Trump non esita a rendere pubblico. C’è chi dice che questo sia l’unico modo per trattare con Trump: adularlo per ottenere concessioni. Ma a parte il fatto che, alla fine, Trump è riuscito a ottenere quello che voleva, sorge una semplice domanda: che figura ci facciamo a comportarci così?
Il secondo riguarda la guerra dei dazi. Non si sa come andrà a finire, ma l’ipotesi più concreta sembra essere quella dei cosiddetti dazi asimmetrici. Con questi le esportazioni europee verso gli Usa sarebbero tassate, mediamente, a un tasso superiore a quello a cui verrebbero tassate le loro esportazioni verso l’Europa. Fra l’altro questa soluzione cristallizzerebbe la situazione attuale in cui gli Usa applicano un dazio generalizzato del 10 per cento, ben più alto di quello medio applicato dall’Ue. Accettare un’asimmetria a favore degli Stati Uniti ridurrebbe nell’immediato l’incertezza che danneggia la nostra attività economica. Ma, anche qui, a che prezzo in termini di percezione della nostra volontà di resistere a imposizioni esterne con conseguenze per future richieste americane?
La terza riguarda la recente decisione da parte dell’Ue di esentare le multinazionali americane nell’applicazione dell’imposta minima del 15 per cento concordata in sede Ocse qualche anno fa e che è stata oggetto di una direttiva europea. Le imprese americane resterebbero soggette a un’imposta americana, sempre del 15 per cento, ma che è, in pratica, molto meno stringente di quella concordata in sede Ocse. Anche questo è il risultato di aver ceduto alle pressioni americane a vantaggio delle loro imprese.
Chiarisco una cosa. Trump fa bene a far quello che fa, ossia gli interessi americani. Il problema siamo noi che, mi sembra, cediamo, troppo facilmente alle richieste d’Oltreoceano, e lo facciamo perché siamo strutturalmente indeboliti dalle nostre divisioni interne. Se questa disunione non cambia saremo condannati all’irrilevanza politica, come ha detto più volte Mario Draghi. L’Europa si trasformerà sempre più in un museo, o in un parco giochi, per miliardari extracomunitari. Vedi l’idea balzana che Musk aveva avuto di una sfida al Colosseo con Zuckerberg o il matrimonio di Bezos a Venezia, dove ampi spazi pubblici della città sono stati chiusi. Certo, ha portato un po’ di soldi, ma a che prezzo in termini di dignità delle nostre istituzioni.