Aspetta solo il momento giusto. Un sondaggio rivela che l’uomo solo al potere, se scelto dal popolo, piace

Meloni pronta a calare l’asso del premierato

C’è un momento, nella politica, in cui il silenzio pesa più di mille dichiarazioni. Giorgia Meloni lo conosce bene. È quello spazio di quiete apparente in cui il potere tace, ma non dorme. E mentre molti osservatori tirano un sospiro di sollievo, convinti che la premier abbia accantonato il progetto di premierato – la madre di tutte le riforme, secondo la sua stessa liturgia – la realtà potrebbe essere un’altra, più sottile e inquietante: e se stesse solo aspettando?

 

Il primo indizio è nel calendario parlamentare. Non è un caso, ma un disegno. Quando la separazione delle carriere sarà definitivamente approvata – vittoria simbolica per Forza Italia, come l’autonomia differenziata lo è stata per la Lega – Fratelli d’Italia potrà battere cassa. Con l’autorità di chi ha concesso, dirà che è tempo di pretendere. E chiedere, anzi esigere, il via libera al suo vero progetto egemonico: il premierato. Il piano funziona, perché ogni alleato avrà avuto la sua ricompensa. Resterà solo Meloni con l’ultima fiche sul tavolo, da giocare in solitaria ma in posizione dominante.

 

Il secondo elemento arriva da un sondaggio commissionato da Carlo Calenda, paradossalmente per sostenere una proposta opposta, quella di un’Assemblea costituente. Ma la domanda agli intervistati era spietata nella sua chiarezza: volete un leader che governi da solo, senza Parlamento, con pieni poteri per cinque anni? La risposta, ancor più spiazzante: oltre il 50 per cento dei giovani under 35 ha detto sì a un’idea che sfiora l’autoritarismo. In quella risposta, c’è un grido silenzioso: stanchezza, sfiducia, voglia di scorciatoie. Ed è proprio lì che la proposta di Meloni potrebbe affondare le sue radici. Perché se una fetta di Paese è pronta ad accettare il potere senza controllo, quanto più sarà disposta ad approvare un premierato con la patina democratica dell’elezione diretta?

 

E allora, se questi sono i numeri per una soluzione che cancella il Parlamento, perché mai Meloni dovrebbe temere di portare al referendum una riforma – il premierato – assai più “digeribile”? Che, con tutti i suoi difetti, ha almeno il pregio della semplicità: un capo del governo eletto direttamente dal popolo, senza alchimie né compromessi. Un potere nuovo, ma legittimato. C’è chi le rinfaccia il timore di finire come Renzi. Ma è un paragone sbagliato. Renzi era un leader logorato da un partito in bilico. Meloni no. Ha un partito monolitico, un potere personale senza precedenti nel centrodestra. Nessun alleato ha la forza – né la voglia – di colpirla alle spalle, come accadde all’ex segretario del Pd.

 

E poi, diciamolo: la riforma Renzi era un castello di compromessi che aveva un punto debole: sterilizzava il Senato, ma non lo aboliva, anzi ne affidava l’elezione ad altri eletti, sottraendola ai cittadini. Meloni invece ha capito che, per vincere un referendum costituzionale, non serve un progetto perfetto. Serve una narrazione potente. Popolare. Binaria. E cosa c’è di più diretto di un popolo che elegge il suo capo, che lo sceglie senza mediazioni, che lo investe di un potere vero?

 

Ecco allora il paradosso: mentre tutti pensano che abbia rinunciato, Giorgia Meloni potrebbe star solo aspettando che la scena sia vuota, i riflettori puntati, gli alleati pagati — per calare l’asso. E in quel momento, quando la riforma tornerà in cima all’agenda come se fosse una sorpresa, scopriremo che non era mai stata davvero messa da parte. Solo nascosta nel cassetto del potere, in attesa del momento giusto.

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