Opinioni
17 luglio, 2025Giusto approfondire i fatti di sangue, ma c’è un’etica da seguire. E un dolore sempre da rispettare
C’è un momento, in ogni caso di cronaca nera, in cui qualcosa si incrina. Non solo nel cuore dell’indagine, ma nel modo in cui scegliamo di raccontarla. «Abbiamo un codice etico che ci offre indicazioni su come narrare casi di cronaca nera evitando di porre in essere azioni rivittimizzanti», spiega la psicologa e criminologa Margherita Carlini. «Evitando linguaggi, immagini, riferimenti o termini stereotipati che possano responsabilizzare la vittima, o insinuare che le sue condotte abbiano contribuito a quanto accaduto. Questo, però, viene spesso ignorato in nome degli ascolti o del titolo che fa notizia a discapito dei familiari, che già affrontano un lutto violento e devono, nel silenzio negato, cercare nuovi equilibri per sopravvivere. Non è la memoria che provoca dolore né la ricerca della verità: è l’attenzione morbosa».
Non è un attacco alla cronaca. È un appello al modo in cui la cronaca viene confezionata. È ancora possibile saper dire “non lo sappiamo”, resistere alla tentazione della semplificazione, non innamorarci della tesi più comoda, non indugiare su pretestuosi dettagli pestando in modo violento la memoria?
Quando le vittime sono giovani, come nel caso di Chiara Poggi o di altre ragazze la cui morte diventa anche una saga mediatica per empatia nei confronti di una vita spezzata, il dolore diventa collettivo. È comprensibile. Tutti ci sentiamo responsabili: scuola, giustizia, comunità, famiglia. Ma la responsabilità dell’informazione resta ineludibile. Perché non è la tragedia che raccontiamo, il male, ma il modo in cui decidiamo di ricercare la verità, che può fare la differenza. Secondo Carlini, «i crimini più efferati avvengono spesso in contesti considerati normali, e questo ci spaventa, perché assomigliano ai nostri. Così scatta un meccanismo psicologico: approfondiamo, scaviamo nei dettagli, perché abbiamo bisogno di sapere tutto, illudendoci che la conoscenza ci metta al riparo. È un modo per convincerci che a noi, una cosa simile, non succederà mai».
In questa ossessione di rassicurazione, si annida un pericolo più sottile: quello della disumanizzazione. Cominciamo a vedere la vittima solo nel ruolo di caso, e il presunto colpevole come mostro. Ma cosa intendiamo davvero per mostro? «È una figura che costruiamo per allontanarla il più possibile da noi», continua Carlini. «Gli attribuiamo tratti lombrosiani, lo collochiamo ai margini, con una carriera criminale alle spalle. Qualunque sia la sua immagine, risponde a un bisogno: quello di non riconoscerci in lui».
La realtà è più complessa. Il caso Garlasco, con i suoi diciotto anni di indagini, errori, verità ribaltate, nuovi testimoni, versioni degli avvocati che diventano a loro volta protagonisti della vicenda, lo dimostra. Il rischio più grande è di innamorarsi di una tesi, dividersi in tifoserie, anche qui colpevolisti e innocentisti, smarrendo il dubbio, che è invece il cuore di ogni indagine onesta.
«Quando tutto viene riaperto, anche mettendo in discussione la vita privata della vittima – conclude Carlini – è come se il delitto si ripetesse. Chiara Poggi, ad esempio, è scomparsa troppe volte dietro l’attenzione morbosa per dettagli tecnici o irrilevanti. E viene ricordata solo quando fa notizia. Anche questo è un fallimento».
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