Opinioni
25 luglio, 2025Creare una banca dati è un'ottima cosa, ma il disastro è sottostimato. Servono i numeri delle Regioni
Il primo passo per risolvere un problema è quello di misurarne l’entità. È per questo motivo che il governo ha fatto bene a includere nel decreto legge n.72 del 7 giugno 2024 l’istituzione di una banca dati per raccogliere informazioni sulla durata delle attese per ricevere prestazioni sanitarie. In precedenza, alcune Regioni raccoglievano e pubblicavano tali informazioni, ma non in modo sistematico e secondo criteri che ne rendevano difficile la lettura e il confronto tra Regioni. Dopo un anno circa dal decreto, la banca dati è stata aperta al pubblico e contiene le prime informazioni su quello che è uno dei problemi fondamentali del nostro sistema sanitario: la lunghezza delle liste d’attesa.
Che cosa ci dicono queste informazioni? Un buon riassunto è fornito da una nota di Gianmaria Olmastroni e Gilberto Turati pubblicata dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani qualche giorno fa. Purtroppo, le informazioni fornite sono solo parziali in due fondamentali aspetti. Il primo è che la banca dati, curata dall’Agenzia per i servizi sanitari regionali, contiene finora solo dati nazionali, invece che quelli regionali. Non si capisce perché, visto che la nostra sanità è gestita a livello regionale e individuare le regioni dove la qualità dei servizi è peggiore serve a capire dove è necessario intervenire e a informare gli elettori di come i governi regionali si comportano.
Il secondo aspetto carente è che i dati pubblicati non includono le durate più prolungate e, quindi, sottostimano l’entità del problema. Chiarisco. Per ogni visita o intervento sono pubblicati tre valori: entro quanti giorni viene effettuato il 25% delle prestazioni, entro quanti giorni la metà di esse ed entro quanti giorni il 75% delle prestazioni. Non si sa quindi nulla sul peggiore 25%, quello con durate più prolungate, tranne che la durata eccede quella del restante 75%.
Non è una omissione da poco. Ma bastano i dati pubblicati (riferiti ai primi cinque mesi di quest’anno) per capire che l’attesa necessaria per ricevere prestazioni dal servizio sanitario nazionale eccede di gran lunga quella prevista. Mi limito alle attese per i venti esami più comuni (anche se i dati sono pubblicati pure per le visite). Ci sono quattro classi di urgenza. La prima è quella degli esami più urgenti da eseguire entro tre giorni. Questo vincolo viene rispettato in tre quarti dei casi solo per 8 delle 20 più comuni visite. Per la seconda classe di urgenza (esami da effettuare entro dieci giorni) solo per un esame (radiografia al torace) il vincolo è rispettato nei tre quarti dei casi. In questa classe gli sforamenti sono pesanti.
Il caso peggiore riguarda la colonscopia: la metà dei pazienti aspetta più di un mese (44 giorni). Per la terza classe di urgenza (visite da effettuarsi entro 60 giorni) i risultati sono un po’ migliori, ma sempre negativi: solo per sette esami su venti il limite è rispettato per tre quarti dei casi. E per la quarta classe di urgenza (limite di 120 giorni) gli esami che avvengono in tempo nei tre quarti di casi sono solo otto. Anche per queste due classi di urgenza i risultati peggiori si hanno per le colonscopie. Insomma, per usare un eufemismo, c’è spazio per migliorare! E, ricordo, questi sono i risultati per tutto il territorio nazionale. Per le regioni peggiori, il quadro deve essere davvero desolante. Restiamo in attesa di sapere quanto.
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