Politica
22 settembre, 2025È la più contendibile tra le regioni al voto in questo autunno, dopo essere passata a desta per le divisioni della sinistra. La rimonta è in mano al dem Matteo Ricci, che dice: «Ogni giorno mi alzo per vincere contro questi»
Visto da vicino, in un giorno infrasettimanale di campagna elettorale per la conquista della regione, Matteo Ricci sembra un Rocky Balboa con la faccia da commercialista, un Marty Howard con la “Voglia di vincere” che aveva Michael J. Fox nel film cult del 1985. Uno che scalpita pure da seduto a tavola: «Battere questi, che hanno collocato le Marche nella mediocrità: è quello che mi fa alzare ogni giorno», dice l’eurodeputato dem in trance agonistica mentre sbocconcella per pranzo una bruschetta, tre olive ascolane, due cubetti di crema fritta. «Questi» sarebbero il candidato uscente Francesco Acquaroli, ex sindaco di Potenza Picena e deputato, pura creatura da Fratelli d’Italia della prima ora, e i destri che lo sostengono, dai più noti come il senatore Guido Castelli, ex sindaco di Ascoli Piceno, ora commissario straordinario alla ricostruzione, Italo Bocchino, inviato da Meloni, fino a tutti gli altri che si muovono sul territorio. «La faccia moderata, le seconde e terze file coi loro metodi squadristi», mormora ancora Ricci, seduto al tavolo della locanda Centimetro Zero di Pagliare del Tronto, frazione di Spinetoli, provincia di Ascoli, magnifico esempio di ristorazione sociale che da dieci anni forma e fa lavorare ragazzi e ragazze con disabilità e fragilità, secondo il motto per cui «quando perdiamo il diritto a essere differenti perdiamo il privilegio di essere liberi» (parole che hanno dipinto anche su una sedia donata al capo dello Stato Sergio Mattarella). Al suo tavolo si alternano sostenitori, militanti, gente comune. Chi si complimenta, chi sottopone un problema. Ciascuno gli dice: forza, resisti, manca poco. Lo sanno tutti che l’«indagine» su di lui, il caso scoppiato in pieno luglio, quando fu iscritto nel registro della Procura nel caso Affidopoli, per incarichi e contributi affidati senza bando pubblico, ha rischiato di travolgere ogni cosa. Giorni di fuoco, con la destra che rilasciava interviste il cui titolo era «non parlo dell’inchiesta», con il leader del M5S Giuseppe Conte che leggeva avvocatescamente le carte e lasciava divampare le polemiche nei Cinque stelle – nulla era chiuso ancora nelle Regioni quanto ad alleanze –, per poi alla fine convincersi che non ci fossero motivi sufficienti a chiedere un passo indietro. «Questi hanno cercato di farmi ritirare, poi hanno cercato di mandare all’aria l’alleanza coi Cinque stelle. Ma non sono riusciti: io sono qui», conclude Ricci. Un battesimo del fuoco: è così, con la rabbia di chi è sopravvissuto a una bufera, che l’ex maglia numero 7 degli allievi della Vis Pesaro, quello che «faceva fare gol», la stessa squadra in cui ha giocato Arnaldo Forlani, star nazionale delle Marche nella prima Repubblica, ha agguantato l’ambizione di portare lui la bandiera della riscossa, della riconquista, del ribaltone nella partita più delicata di questa stagione.
Tra le regioni che vanno al voto in questo autunno le Marche non sono soltanto la prima in ordine cronologico, il prossimo 28 e 29 settembre. Sono l’esame numero uno dell’alleanza di centrosinistra che in questo turno, infine, si presenta unita ovunque come non cessa di ripetere la segretaria del Pd Elly Schlein. Sono l’unica regione considerata contendibile: al punto che, al di là dei sondaggi circolati fino all’ultimo minuto lecito, la premier Giorgia Meloni ha anche teorizzato di aspettarne il risultato, prima di decidersi a trovare con Tajani e Salvini l’accordo sui nomi da candidare in Veneto, Puglia e Campania.
Tradizionalmente bianche, le Marche sono passate clamorosamente alla destra nel 2020, dopo venticinque anni di centrosinistra Pds-Ds-Margherita-Pd, grazie anche a due fenomeni di portata locale. Uno fu il trasformismo di Gian Mario Spacca, due volte governatore per il centrosinistra (Margherita-Pd): nel 2015, lasciato il Pd, Spacca si presentò come candidato autonomo centrista, con la sua lista Marche 2020, il sostegno di Forza Italia e Area Popolare e prese il 14,8 per cento. Un pacchetto moderato che poi, assieme al suo titolare, è confluito a destra nel 2020, contribuendo alla vittoria di Acquaroli. L’altro fenomeno riguarda classicamente l’alleanza di centrosinistra, che cinque anni fa era praticamente polverizzata, divisa per lo meno in tre: c’era il candidato del Pd e Iv, quello di Sinistra italiana, quello dei Cinque stelle, partito che a sua volta risultava diviso in tre.
È in questo doppio fenomeno – sinistra spaccata, centro che vira a destra - che si è inserita la vittoria di Francesco Acquaroli, dentro la grande onda nera di quegli anni. Acquaroli del resto anche oggi sembra portato in cima a un’onda, azzimato nei modi e vago nei contenuti, come non volesse sporcarsi troppo le mani coi dettagli, anche quando, nei dibattiti con Ricci, grazie a un italiano sui generis, parla ripetutamente delle «nostre imprese», delle «nostre donne», delle «nostre generazioni giovanili», guardandosi bene dall’entrare in polemica con il suo sfidante, oppure sbandiera con disinvoltura il regalo d’agosto del governo, la Zes estesa anche a Marche e Umbria, senza specificare che per il momento su quel provvedimento non c’è sopra un euro. Una tendenziale inerzia che a via della Scrofa vedono con l’occhio torvo (di qui l’invio del commissario ad personam Bocchino), ma che pure si accomoda dentro un’epoca dove il quieto (e nero) grigiore prevale sul franco guerreggiare.
È per converso sopra quel cumulo di macerie del centrosinistra di cinque anni fa, e sulla pesante eredità del governo regionale precedente, che si è avviata la corsa di Ricci. Un sindaco di successo e di notorietà anche nazionale (forse troppo, agli occhi dei quieti marchigiani), tra i primi del Pd bersaniano a farsi renziano, insieme con Stefano Bonaccini. A un passo dal candidarsi alle primarie 2023 e invece poi sostenitore dell’oggi presidente del Pd. Capace di allargare, da primo cittadino a Pesaro, la giunta ai Cinque stelle proprio negli anni in cui per il Pd stringere un’alleanza pareva impresa impossibile, e quindi oggi credibilmente capo di un’alleanza coesa. Sia pur in bilico tra il rischio di finire come l’Abruzzo del febbraio 2024 – quando il centrosinistra unito riuscì in una spessa rimonta, ma dovette fare i conti anche con liste troppo poco rinnovate e una maggior forza territoriale della destra – e la speranza di finire invece come l’Umbria, strappata di nuovo un anno fa alla destra, dalla civica Stefania Proietti.
«La vita è tutta questione di centimetri» usa dire Ricci nel finale dei suoi comizi. È una citazione del film di Oliver Stone “Ogni maledetta domenica”. Ma lontano dal football i centimetri sono i voti, ogni singolo voto da conquistare per realizzare il grande capovolgimento. Impresa non facile ma possibile. Ricci gira forsennato a bordo dell’auto grigia con l’enorme slogan “Un cambio di Marche” e una vecchia valigia color tabacco chiaro anni Sessanta: di lì, durante i comizi, estrae la lanterna da minatore di suo nonno, che lavorò per dieci anni nella miniera di Charleroi, in Belgio, dove lui oggi atterra per il lavoro di europarlamentare, ma anche la prenotazione al Cup, per raccontare in quale stato drammatico si trovi, dopo cinque anni di centrodestra (e venticinque di centrosinistra) la sanità regionale che, oggi, lascia indietro 150 mila persone che secondo le statistiche smettono di curarsi perché le liste d’attesa sono troppo lunghe e andare dal privato costa. Estrae biglietti d’aereo per raccontare che vuol aprire al turismo straniero, un caschetto giallo perché vuole un lavoro più sicuro ma anche un salario minimo regionale, la sua maglia di calcio da ragazzo, una foto da sindaco per dire che quando si ha un incarico istituzionale si rappresenta tutti, soprattutto chi non ti ha votato. Poi ripone gli oggetti e va via, con la sua valigia piena di voglia di vincere, pronto forse persino a trasformarsi in licantropo se proprio serve.
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