Opinioni
11 agosto, 2025In Italia migliaia di hikikomori, giovani che non escono dalle loro stanze. Ma esistono dei rimedi
È un’estate silenziosa, per molti genitori. Non perché le case siano vuote, ma perché le stanze dei loro figli sono chiuse. Dietro quelle porte ci sono ragazzi che non escono più. Dormono di giorno, vivono di notte, non hanno amici, non parlano più in casa, non fanno sport, non vanno a scuola, non giocano in spiaggia o in piscina. Sono i cosiddetti hikikomori, un termine giapponese che descrive un fenomeno sempre più diffuso anche in Italia: “stare in disparte”, riguarda il ritiro sociale volontario, soprattutto maschile, spesso legato a forme di ansia.
Secondo i dati ufficiali più aggiornati, i casi sono oltre sessantamila, soprattutto nella fascia fra i tredici e i diciotto anni. Dafne Guida, pedagogista e presidente della cooperativa sociale Stripes (Studio, Ricerca, Intervento, Pedagogia Extrascolastica) sostiene che «la portata sia molto più ampia: il disagio non riguarda solo i ragazzi, ma investe genitori, fratelli, scuole, l’intero sistema educativo. Mezzo milione di persone, in modo diretto o indiretto, ne sono coinvolte». Stripes, assieme a una folta rete di soggetti (Albatros, Spazio Ars, Asst Milano) ha lanciato il progetto Segmenti consapevoli per affrontare questa emergenza post-pandemica: «Il nostro obiettivo è ricostruire la fiducia nel mondo reale. I ragazzi percepiscono il virtuale come più sicuro, più gestibile. Il nostro compito è riaccompagnarli fuori, non forzarli, non giudicarli», spiega Guida. Il progetto si sviluppa a partire dalla garanzia di un aiuto psicologico e dall’attivazione di una figura chiave: un educatore-tutor che affianca il ragazzo con continuità e costruisce relazioni di fiducia anche a casa del ragazzo delineando un’alleanza tra famiglia, scuola e servizi, in una logica di welfare comunitario. Nessuna invasione, nessuna imposizione, e soprattutto nessuna demonizzazione del mondo digitale: «Molti genitori pensano che spegnere il Wi-Fi risolva il problema, ma in realtà peggiora la situazione. È da lì che si può ripartire. Il virtuale non è la causa dell’isolamento, ma può diventarne rifugio e prigione».
La scuola, spesso impotente di fronte all’assenza che non sa riconoscere come segnale di pericolo, deve restare un punto di riferimento. «Non vogliamo portare la scuola a casa – sottolinea Guida – ma creare un progetto individualizzato che tenga dentro il ragazzo, anche quando non riesce a frequentare. Perché la relazione educativa è già una cura ed è importantissimo intervenire entro i primi sei mesi dai primi segnali di isolamento». L’estate, paradossalmente, aggrava la crisi. Le famiglie non riescono più a fare vacanze, si sentono ostaggio dei figli rinchiusi, come se fuori da quella porta ci fosse un burrone che non riescono a scavalcare. E i ragazzi, che magari avvertono nuovamente il desiderio di socialità, si vergognano e restano bloccati nella dimensione del ritiro. Sentono lo stigma del termine hikikomori, pensano che sia troppo tardi per tornare indietro, che non vengano considerati “normali”. «È proprio in questi mesi – racconta Guida – che riceviamo più richieste di aiuto. I genitori ci dicono: non sappiamo più cosa fare. Ecco perché è fondamentale fare rete. Devono capire che non è solo un disagio psicologico, è anche un’emergenza educativa e non riguarda solo la dipendenza da Internet. Servono ascolto, empatia, strumenti adatti. Solo così si può, gradualmente, riaccendere l’interesse per la vita fuori da quella stanza».
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