Opinioni
12 agosto, 2025E fa piacere alla politica di destra saperci nella finta comunità social e lontani dalla vita reale
Può sembrare strano parlare di solitudine alla fine di una settimana dove, a scorrere i social, sembra di essere in presenza di una comunità viva, attiva e naturalmente divisa, pronta a discutere sull’intervista a David Grossman sul genocidio a Gaza e definirla di volta in volta tardiva o necessaria. Per capire cosa c’è dietro l’apparenza bisogna dunque rileggere le parole che nel 1998 bell hooks affidò al suo meraviglioso Elogio del margine. Queste: «Una volta tornati agli spazi da cui veniamo, ci facciamo fuori con le nostre stesse mani per la disperazione, annegando nel nichilismo, preda della povertà, della dipendenza e di tutti i postmoderni modi di morire che si possono immaginare. Inoltre, quei pochi di noi che ce la fanno a rimanere in quello spazio “altro”, sono spesso troppo isolati, troppo soli. Ci si può addirittura morire».
Oggi bisognerebbe sostituire “spesso” con “sempre”, e quello che è davvero strano è che in Italia si parli poco di solitudine pur avendo sotto gli occhi tutti i sintomi: da quelli drammatici, come gli anziani che muoiono consumati dal caldo eccessivo perché non hanno persone che si prendano cura di loro, a quelli apparentemente veniali come il moltiplicarsi delle pagine Facebook che, su richiesta, animano i volti e i corpi dei morti che abbiamo amato. Accade sempre più spesso, grazie ad applicazioni che permettono di abbracciare una moglie o un marito scomparsi troppo presto, o di stringere fra le braccia un neonato che non c’è più. Non c’è nulla di male, e insieme il male c’è.
Nel 1983 il New York Times pubblicò un articolo dove si parlava della solitudine come di un’epidemia nazionale: troppa tecnologia, impersonalità dei contesti urbani, poca mobilità. Il timore, disse allora il sociologo Robert Weiss, è che le persone sole avrebbero adottato qualsiasi possibile rimedio per non esserlo più: in altre parole, profetizzò la nascita di un’industria della solitudine, che sarebbe stata tanto più potente nella misura in cui la comunità si sarebbe fatta più debole. Oggi l’industria c’è, e non è piccola. Aumentano le persone che trovano in ChatGpt un amico a cui confidare malumori, malanni e problemi familiari. Senza che ti smentisca, anzi, offrendoti soluzioni che spesso si comprano (su Amazon, basta un clic). Mark Zuckerberg ha chiamato «ciclo di personalizzazione» quello che il New York Times di oggi chiama «ciclo della solitudine», e che sostituisce la presenza umana con quella digitale. OpenAI sta sviluppando RepliKa, un “compagno virtuale” destinato a “vivere” a fianco degli utenti. Una pubblicità recita: «Gli amici vanno e vengono, ma GalaxyAI ti copre le spalle». In pratica, le grandi industrie tecnologiche sono ben felici della nostra solitudine: suppongo che lo siano anche i governi conservatori o decisamente di destra che si moltiplicano, perché se siamo soli, ci limitiamo a frequentare la finta comunità dei social senza reagire nella vita reale.
Per questo, la cosa preziosa di oggi è Goodbye Hotel di Michael Bible, uscito con successo presso Adelphi nella traduzione di Martina Testa: in una storia fatale di amori infranti e di tartarughe, il vero focus è proprio la solitudine: «Tutti si sentono soli, con addosso la maledizione di un vuoto americano che gli cresce dentro». Non è solo americano: e, come direbbe bell hooks, è vitale prenderne atto e reagire, perché «le nostre vite dipendono dalla nostra capacità di concettualizzare alternative, spesso improvvisando». Cercarle è urgentissimo.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Il diritto alle vacanze - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 15 agosto, è disponibile in edicola e in app