Opinioni
22 agosto, 2025È una resa dei conti con i magistrati: la riforma della giustizia non la renderà più efficiente
C’è qualcosa di profondamente evidente nella foga con cui il governo Meloni sta spingendo la cosiddetta riforma della giustizia che non riforma un bel niente. Lascia intatti i problemi che ne intralciano il corso – dai tempi alla macchina, dagli organici all’arretrato, dall’iperproduzione normativa al disastro penitenziario – e, ancora una volta, interviene per segmenti, la separazione delle carriere, inceppando un meccanismo già farraginoso, con il pastrocchio di un doppio Csm per sorteggio e l’Alta corte disciplinare.
Facendo impallidire anche i peggiori colpi di mano della Prima Repubblica, si è arrivati a tappe forzate al sì del Senato a fine luglio. Il doppio passaggio in autunno è una pura formalità. La maggioranza dei due terzi, anche con il puntello dei centristi, di Azione e Italia Viva, è improbabile e nel 2026 si andrà a referendum: sarà la più lunga, noiosa e defatigante campagna elettorale che saggerà la tenuta dell’esecutivo con un anno di anticipo rispetto alla fine della legislatura. Ammesso che si arrivi a scadenza naturale, servirà a mascherare il sostanziale vuoto che ne ha contraddistinto lo svolgimento.
Sotto i colpi dei provvedimenti che hanno demolito la costosa scenografia della campagna securitaria albanese, lasciando la voragine delle spese, di quelli che hanno smascherato la genuflessione governativa ai criminali libici con il caso Almasri, sull’onda di inchieste imbarazzanti per la distrazione di denaro pubblico dei suoi, la premier, evoca i complotti delle solite toghe rosse. E viaggia non verso una riforma, ma verso il regolamento di conti con una categoria, i magistrati, di cui sembra stimare solo gli accomodanti e proni, che, va detto, non sono pochi. E i morti, come Paolo Borsellino, evocato quasi sempre a sproposito sul tema.
La separazione delle carriere è l'ennesimo regalo avvelenato di questo esecutivo alle lobby, un modo neppure troppo elegante per neutralizzare il potere giudiziario quando si mette di traverso agli interessi del palazzo. Non è un caso che Forza Italia abbia dedicato il passaggio a Silvio Berlusconi – il Cavaliere che per decenni ha sognato di addomesticare i magistrati che osavano indagarlo.
Nordio contrabbanda questa riforma come una necessaria modernizzazione europea. Ed è l’Europa che piace, quella che però ha sistemi giudiziari frutto di tradizioni costituzionali completamente diverse, che non discendono da riforme imposte per risolvere i problemi giudiziari di chi comanda.
La separazione delle carriere è un formidabile espediente per indebolire l'autonomia della magistratura inquirente, renderla docile. Controllare chi controlla. Quando un pubblico ministero avrà un percorso di carriera completamente separato e sottoposto a pressioni politiche diverse, sarà più facile condizionarlo, ricattarlo, annientarlo.
Altrimenti non si comprenderebbe l’euforia di una maggioranza che esulta come l’avessero liberata dall’incubo del controllo di legalità. Il caravanserraglio propagandistico dovrà attrezzarsi per ribaltare i sondaggi che non danno affatto per scontato l’esito referendario. Dovrà provare a darla a bere agli italiani, facendo loro credere che d’un colpo, votando sì a pm e giudici separati, vedranno materializzarsi la giustizia giusta. Veloce, efficiente, equa e inesorabile. Con tutti.
Perché la sensazione forte è che a separarsi saranno principalmente i destini di chi la invocherà: colletti bianchi e potenti da una parte, scudati, salvati, graziati e protetti. Il resto, dall’altra. Con buona pace dello Stato di diritto.
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