Opinioni
28 agosto, 2025Da vanto a fastidio. Ma tornare indietro sulla scelta dei candidati affidata agli elettori è pericoloso
C’è un vizio d’origine che sta corrodendo il «campo largo», prima ancora che diventi realmente campo e realmente largo: la paura di affidarsi agli elettori. Non parliamo di grandi scelte di sistema, ma di qualcosa di più semplice e, al tempo stesso, più decisivo: le primarie per scegliere chi guiderà le coalizioni nelle prossime sfide regionali. Un rito che il centrosinistra ha inventato, che ha rappresentato la sua cifra distintiva per oltre un decennio e che oggi, invece, viene trattato come un fastidio, un ostacolo, un rischio da evitare.
La Puglia ne è il laboratorio più evidente. Antonio Decaro – l’ex sindaco di Bari che ha dalla sua popolarità e radicamento ed è infatti considerato il favorito – ha dichiarato di essere pronto, ma a una condizione: che non si presentino ingombranti candidature come quelle di Michele Emiliano e Nichi Vendola, i due ex presidenti della Regione. I quali hanno risposto che non hanno nessuna intenzione di rinunciare a un loro diritto costituzionale. Con il risultato che al Nazareno adesso non sanno che pesci pigliare.
In Campania, la situazione assume persino tratti grotteschi. Vincenzo De Luca, governatore uscente, lega la sua disponibilità ad appoggiare l’ipotesi di candidatura di Roberto Fico a un pacchetto di condizioni, che sembrano un regolamento interno di partito più che una visione di governo regionale. Tra queste, la più clamorosa: l’elezione del figlio a segretario regionale del Pd. La politica ridotta a un mercimonio dinastico, la scelta dei cittadini compressa in un do ut des tra correnti e famiglie.
In Calabria, infine, lo schema si fa ancora più stringente: Pd e Alleanza Verdi e Sinistra sarebbero pronti a lasciare la candidatura al Movimento 5 Stelle, ma solo se il nome sarà quello di Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps e teorico del reddito di cittadinanza. Altrimenti ciascuno degli alleati metterà sul tavolo il suo nome. E il candidato, come per la Puglia, la Campania e la Toscana, alla fine verrà scelto attorno a un tavolo romano.
Il risultato di questo mosaico è un disegno nitido: per accontentare tutti i partiti dell’alleanza si rifiuta l’idea stessa che siano gli elettori a decidere. Il processo democratico viene compresso nelle segreterie nazionali, ridotto a trattativa tra notabili, siglato con clausole segrete e condizioni personali. Così facendo, il centrosinistra abdica alla sua stessa ragione fondativa. Ha inventato le primarie come antidoto alle cooptazioni, come strumento di apertura alla società civile, come metodo per dare cittadinanza politica ai suoi elettori, persino per scegliere la segretaria del Pd al di fuori dei confini del partito. Ora le considera un pericolo, un’arma spuntata, una complicazione da rimuovere. Ma se la scelta torna nelle mani dei capipartito, perché un elettore dovrebbe sentirsi coinvolto?
La politica che mercanteggia tutto a Roma perde la capacità di parlare alle piazze, alle comunità locali, alle storie concrete dei territori. Si riduce a un regolamento interno di equilibri, interessi, contropartite. E in questo ridimensionamento, il centrosinistra rischia di consegnare alla destra non solo le Regioni, ma l’idea stessa di futuro. Perché un campo largo senza primarie non è largo: è soltanto un campo chiuso, presidiato da chi decide le regole e i candidati. E la democrazia, quella vera, resta fuori dal recinto.
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