Opinioni
17 settembre, 2025Neppure una condanna definitiva riesce a scollare dalla sua poltrona chi si ritiene coperto dall’immunità
Ammettiamolo: noi italiani abbiamo letto quasi con stupore che Angela Rayner, vice primo ministro inglese, ha lasciato l’incarico dopo che un’inchiesta ha accertato un versamento insufficiente di tasse per quarantamila sterline nell’acquisto di una casa. Non un’evasione, ha detto la commissione, soltanto superficialità. Ma tanto è bastato perché una delle donne più potenti di Londra considerasse compromessa la sua credibilità. Un passo indietro, le scuse, l’uscita di scena.
Lo stupore nasce dal fatto che nel nostro Paese questo è diventato evento raro. Da noi ormai non esiste la vergogna, non esiste l’onore, non esiste il senso delle istituzioni. Abbiamo ministri sotto processo per truffa allo Stato che siedono tranquilli al loro posto, parlamentari condannati per peculato che ogni sera parlano nei telegiornali a nome del partito della premier. Ma l’eccezione non è l’Inghilterra: l’eccezione siamo noi. Nella vicina Francia, per dire, negli ultimi quindici anni dieci ministri – Thevenoud, de Rugy, Flessel, Cayeux, Cahuzac, Le Roux, Goulard, Bayrou, Gaymard e Griset – hanno lasciato l’incarico per motivi che vanno dai rimborsi gonfiati alla frode fiscale. In Italia, nello stesso arco di tempo, solo tre ministri hanno fatto un passo indietro: Scajola per l’attico “a sua insaputa”, Josefa Idem per l’Imu non pagata, Federica Guidi per “Tempa Rossa”. Tre contro dieci. Il resto è un deserto morale, un Paese dove neppure una condanna definitiva riesce a scollare dalla sua poltrona chi si ritiene coperto dall’immunità del politico. Perché?
C’è chi spiega con intelligente acutezza questa differenza con la religione. Nel mondo protestante non esiste la scorciatoia del perdono: il peccato è un marchio che resta addosso. Nel cattolicesimo, invece, la confessione e l’assoluzione aprono sempre una via d’uscita. Così il politico italiano si sente al riparo: il peccato sarà cancellato, la macchia rimossa, la colpa dimenticata.
Ma la spiegazione vera è politica. Nei sistemi anglosassoni l’elettore sceglie direttamente il suo parlamentare. E a fine mandato lo giudica, confermandolo o sostituendolo. Da noi no. Con le liste bloccate, il rapporto tra cittadino e rappresentante si è spezzato. Non decide l’elettore, decide il capo. È lui che compila la lista, che premia o punisce, che salva o cancella. Perciò il parlamentare, anche travolto dallo scandalo, non teme il giudizio dell’opinione pubblica: ha paura solo di perdere la copertura del suo leader.
E così la vergogna evapora, lo scandalo si normalizza, l’illegalità diventa rumore di fondo. Un Paese intero impara a convivere con la corruzione come se fosse un clima naturale, con l’abuso come fosse destino, con l’impunità come se fosse un diritto acquisito. Per spezzare questa catena occorrerebbe restituire al cittadino il potere che gli è stato tolto. L’elettore dovrebbe tornare a scegliere direttamente il suo rappresentante. Non basta tornare alle preferenze della Prima Repubblica, che produssero clientelismo e corruzione. Servirebbe un sistema di collegi uninominali, chiari e trasparenti, in cui ogni candidato risponda al suo elettorato. Come in Gran Bretagna, come in Francia, come negli Stati Uniti. Solo un rapporto diretto tra chi governa e chi vota potrebbe restituire alla politica la responsabilità, alla società la fiducia, alla democrazia il suo respiro. Potrebbe: peccato che i piani del governo Meloni vadano nella direzione opposta.
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