Opinioni
25 settembre, 2025Il rischio è che la ribellione si converta in nichilismo in seno a un sistema francese bloccato
La nomina come primo ministro del fedelissimo “Mr. Wolf” e “spicciafaccende” Sébastien Lecornu è stata la “soluzione-lampo” per una crisi (veramente) di lungo periodo. Ma, come tale, ben difficilmente si rivelerà risolutiva, a meno di rivedere drasticamente le ricette di austerity della legge di bilancio che hanno provocato la caduta del governo Bayrou.
La Francia vive, infatti, da tempo una vera e propria crisi sistemica, da ultimo certificata dal declassamento del rating ad A+ da parte dell’agenzia Fitch, il livello più basso mai registrato nella sua storia finanziaria. E lo conferma, soprattutto, la larga mobilitazione dei giorni scorsi dell’ennesimo movimento di massa, il «Bloquons tout». Una vasta fiammata, a opera di un altro movimento acefalo dopo quello dei gilets jaunes, in gran parte animato da studenti e giovani e che, nella sua porosità e auto-organizzazione mediante i social network, si è trovato esposto a infiltrazioni di vario genere, dai black bloc alla pelosa solidarietà di Pavel Durov, l’ambiguo padrone russo di Telegram.
Una protesta con una matrice di sinistra radicale, fortemente cavalcata da Jean-Luc Mélenchon, ma con una non secondaria presenza dei sovranisti e dell’estrema destra, che contiene certamente anche varie rivendicazioni fondate, ed esprime l’insofferenza verso la diseguaglianza sociale assieme alla percezione di non essere oggetto di attenzione da parte della classe politica. Come era stato appunto per i giganteschi cortei urbani dei gilets gialli (i forgotten men transalpini), anch’essi degenerati nella violenza, ma che avevano mostrato – pur nella notevole confusione programmatica – un’agenda di istanze più definita (le questioni irrisolte della Francia rurale, periurbana e di provincia), a fronte di una volontà di “bloccare tutto” fine a se stessa. Il rischio attuale, difatti, è che la ribellione si converta in puro nichilismo in seno al sistema politico bloccato da Macron – e, al medesimo tempo, come ha affermato il noto politologo Yves Mény, il presidente non può fare altro che rimanere (una specie di dilemma del prigioniero dell’Eliseo). E che, in assenza di un’organizzazione strutturata e di una direzione politica, la protesta si alimenti di una sorta di estetica dell’insorgenza.
Per molti versi, si tratta in realtà di un fenomeno di longue durée, dato che l’ordinamento politico francese della modernità scaturisce da una rivolta violenta fondativa (la presa della Bastiglia e il re ghigliottinato). Ed è un processo proveniente ancora da più lontano: le jacqueries medievali, la «sommossa antifiscale» dei “Piedi scalzi” del 1639-‘40 – dalla cui repressione, come ha scritto Foucault, il cardinale Richelieu fece nascere la «giustizia armata» del sistema penitenziario e poliziesco moderno –, fino al mito dello sciopero generale del sorelismo. Gira e rigira, siamo sempre qui, perché la Francia ha inventato la disintermediazione proprio con la Rivoluzione del 1789, e si conferma una nazione di individui che vogliono risposte direttamente dallo Stato. Così, il Paese è andato avvitandosi in un cupio dissolvi di cui non si intravede la fine. E questo, a differenza di quanto ritengono le destre nostrane che tifano per la caduta del macronismo, è un problema serissimo per l’Europa. E, dunque, per tutti.
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