Opinioni
29 settembre, 2025L’aggressione di un professore durante una lezione all’università è un atto antidemocratico
È una sonora sciocchezza, come fa la destra al potere, evocare a ogni atto di violenza il clima d’odio attribuendone la responsabilità «alla sinistra», mantra della propaganda a reti unificate. Proprio in Italia, nel Paese delle stragi neofasciste, si agita quasi sempre a sproposito lo spettro degli anni di piombo. E sotto il manto del revisionismo si possono vestire panni da vittima.
È pericoloso scherzare con il fuoco di una piazza già a ragione incandescente. Indignata di fronte al massacro di civili a Gaza, all’occupazione militare come atto finale di una pulizia etnica, al genocidio. Esasperata dall’inazione delle cancellerie occidentali, dal balbettio sulle sanzioni a Israele, in cui proprio il nostro Paese spicca per ipocrisia.
Prendere posizione in modo anche rumoroso non solo è legittimo, ma doveroso. “Non puoi essere neutrale su un treno in movimento”, Howard Zinn. Ma far sentire la propria voce, rivendicare le ragioni del popolo palestinese massacrato, non può però mai tradursi nel furore censorio spinto fino all’aggressione fisica. Meno che mai se questo accade in un’università. Come è successo nei giorni scorsi a Pisa dove il professore Rino Casella, docente associato di Diritto pubblico comparato, è stato vittima di un’incursione in aula e bollato come sionista per non essersi schierato con il movimento Pro-Pal.
Quel raid non è resistenza. È inquisizione travestita da militanza. Dà fiato alla propaganda pro-Netanyahu, contribuendo a deviare l’attenzione dalla bontà della causa. È proprio il luogo a fare la differenza, perché l’università è lo spazio deputato al confronto e alla dialettica, anche spietata. E se la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente (Rosa Luxemburg), le aule sono i posti nei quali le idee, anche quelle più odiose, si affrontano, si smontano, si inchiodano alla loro falsità. Vietare la parola significa rinunciare agli strumenti per demolirla. Certo, in virtù di questo sacrosanto principio, non ci si può neppure trincerare dietro una cattedra per proclami farneticanti sull'Idf «esercito più pulito al mondo», come ha fatto il professor Pini Zorea dell'università israeliana di Braude al Politecnico di Torino – da cui è stato poi sospeso – pretendendo che simili affermazioni restassero senza conseguenze. L’università non è un talk show. Nei salotti televisivi l’orrore viene ridotto a «opinione», il massacro a «punto di vista», lo sterminio a «questione complessa». Si spaccia la faziosità per dibattito e l’indifferenza per pluralismo.
Gli atenei dovrebbero essere un’altra cosa ed è paradossale usare gli stessi metodi impiegati dai neofascisti per impedire le conferenze di studiosi di sinistra. Fermare una lezione è un atto vigliaccamente autoritario. Le facoltà non sono il terreno di conquista dell’ortodossia, non vi stanno i tribunali del popolo: dovrebbe abitarvi il pensiero critico, anche contro le idee più aberranti, perché solo così si smascherano e si seppelliscono, con gli strumenti del sapere. Chi decide cosa si può dire e cosa no? Se passa l’idea che il docente “sbagliato” vada zittito, domani toccherà allo storico inviso al governo, e a chiunque non reciti la linea dominante. È una deriva che porta all’incendio dei libri, alla cancellazione culturale, all’egemonia, al pensiero unico. Nel 1931, su 1.225 docenti universitari solo 12 rifiutarono il giuramento di fedeltà «alla Patria e al Regime Fascista». E con la parola persero tutto. Stare con gli oppressi è difendere la libertà. Sostenere le ragioni dei palestinesi significa essere coerenti fino in fondo con i valori democratici. Altrimenti si tradisce proprio quella causa che si pretende di servire.
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