Opinioni
5 settembre, 2025Abbiamo esaurito anche le parole. Al fianco della missione umanitaria di Global Sumud Flotilla
Vergogna. È questa l’ultima parola che ci resta. Dopo quasi due anni di conflitto, di morte e di distruzione, davanti ai volti scavati e ai corpi denutriti dei bambini di Gaza non ci restano più titoli, non ci restano più aggettivi: soltanto vergogna. Vergogna di un mondo che osserva, denuncia, discute, e intanto lascia morire i più fragili per fame.
L’Onu lo ha detto senza più esitazioni: a Gaza c’è carestia. Mezzo milione di persone vivono in condizioni catastrofiche, private di cibo, di acqua, di cure. Intere famiglie costrette a saltare i pasti, genitori che digiunano per dare un tozzo di pane ai figli, piccoli che non hanno più le forze neppure per piangere. E ogni bambino che si spegne lentamente non è solo una vittima del blocco, degli sfollamenti, delle bombe da parte di Israele: è la testimonianza di un fallimento collettivo, della comunità internazionale incapace di proteggere i diritti fondamentali dell’infanzia.
Rachel Cummings di Save the Children lo ha detto chiaramente: questi bambini hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere. Hanno perso amici, parenti, in troppi casi i genitori. Ora li condanniamo anche alla fame. Quasi due anni di conflitto hanno distrutto i sistemi sanitari, agricoli, idrici e di mercato. Gaza è stata spinta in un baratro in cui sopravvivere è diventato un atto eroico.
Eppure, mentre la tragedia umanitaria assume i contorni di un genocidio per fame, qualcuno immagina di trasformare Gaza in una “riviera di lusso”. È l’idea lanciata da Donald Trump: radere al suolo il presente, deportare temporaneamente più di due milioni di abitanti, amministrare la Striscia come protettorato americano e restituirla tra dieci anni, scintillante di resort e investimenti. Un piano mostruoso che sa di cinismo e di marketing politico più che di reale preoccupazione per la vita umana. Non si cancella la sofferenza con un progetto immobiliare. Non si costruisce la pace con un assegno di cinquemila dollari e quattro anni di sussidi.
La verità è che la priorità non è la ricostruzione di hotel o di porti turistici, ma la ricostruzione di una dignità umana calpestata e annullata dalla guerra. E questa passa solo attraverso un cessate il fuoco immediato e un accesso umanitario senza condizioni. Non servono promesse di futuri splendori: servono camion carichi di farina, ospedali funzionanti, acqua potabile. Servono corridoi sicuri per salvare chi ancora può essere salvato.
Per questo salutiamo con speranza e ammirazione la partenza e la navigazione della Global Sumud Flotilla, la più grande missione umanitaria mai organizzata dalla società civile internazionale. Cinquanta velieri, cinquecento volontari provenienti da quarantaquattro Paesi, uniti per tentare di rompere il blocco. Una flotta fragile ma determinata, che naviga non solo per portare aiuti, ma anche per dire al mondo che la coscienza non può arrendersi all’indifferenza. Noi de L’Espresso ci uniamo al loro appello.
Vergogna, sì. Ma che questa vergogna si trasformi finalmente in azione. Non possiamo più limitarci a raccontare distruzioni e sofferenze, a contare i morti. Ogni giorno di attesa significa nuove sepolture, nuovi orfani, nuove esistenze spezzate. La carestia deve essere fermata a tutti i costi. È un dovere politico, morale, umano. Quindi l’ultima parola non sia “vergogna”, ma siano “pace e giustizia”.
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