Opinioni
5 settembre, 2025Il caso del creator francese dimostra l’urgenza sociale di ricostruire dei valori condivisi
a cronaca di questi nostri anni fornisce aggiornamenti continui al catalogo dell’orrore. Un campionario raccapricciante che viene arricchito soprattutto col dark side della digitalizzazione. Il 18 agosto scorso, infatti, è deceduto lo streamer francese 46enne Raphael Graven (nome “d’arte” Jean Pormanove o “JP”): una morte in diretta sulla piattaforma Kick, dopo 12 giorni ininterrotti di live di umiliazioni e violenze a opera di un altro paio di “performer” da social, tali NarutoVie e Safine. Ovvero, i due “carnefici” di questo teatro internettiano della crudeltà di cui “JP” era la vittima e per cui, da mesi, si sottoponeva a botte, ingestione di cibo tossico e vessazioni sempre più estreme, incentivate dalle donazioni degli spettatori.
Un «orrore assoluto», come ha dichiarato la ministra transalpina per l’Intelligenza artificiale e il Digitale Clara Chappaz; e una pornografia della violenza a pagamento per il ludibrio degli internauti di cui Graven era la vittima predestinata e “consenziente”, anche se la procura di Nizza, incaricata del caso, lavora per accertare quanto la dipartita sia stata autoinflitta o provocata dai “partner”.
La morte di stenti dello streamer per ottenere visualizzazioni, popolarità e soldi è la dimostrazione di come il guadagno privo di ogni logica di corrispondenza remunerativa con la prestazione lavorativa generi molto (troppo) spesso solo aberrazioni. Un processo in corso da tempo, quello di svincolare il reddito dalla ricompensa opportuna e corretta (la “giusta mercede”, come si direbbe col linguaggio della dottrina sociale della Chiesa), tanto al vertice che alla base della piramide del mercato neoliberista. Dalle cifre astronomiche di certi influencer e dei campioni sporti- vi sino, al polo opposto, al “tozzo di pane” degli schiavi del clic della gig economy e, ancora, a quella sorta di lavoro gratuito e volontario coincidente con la nostra navigazione sulla Rete, che produce dati assai lucrativi a beneficio dei padroni delle piattaforme. Il cortocircuito della retribuzione per un verso separata dall’impegno e dalla qualità della prestazione lavorativa, e per l’altro sganciata dal riconoscimento della dignità della persona che la fornisce, costituisce anche l’esito di tutta una gamma di attività che non contemplano più un significato per il lavoro.
L’idea novecentesca della “società del lavoro” (sofferta e dura, certamente) risulta archiviata e consegnata al passato. Ma se non si restituisce un senso al lavoro svolto – la cui quantità e le cui opportunità, peraltro, sono sempre minori in termini di offerta – non si fa altro che accelerare ulteriormente le dinamiche di frammentazione e disintegrazione della società. Perché proprio intorno al lavoro si è costruita la politica come azione collettiva: e la pessima alternativa è fatta di tecno-feudalesimo e disoccupazione di massa. Ma non è una prospettiva obbligata e necessitata; e si aprirebbe una vera finestra di opportunità per una visione progressista che non cedesse alla scorciatoia dei sussidi di sopravvivenza come surroga a un welfare in disgregazione, senza, tuttavia, che tali politiche residuali bastino per generare esistenze dotate di senso. Per le quali occorrono, giustappunto, un lavoro e una remunerazione provvisti di valore e dignità.
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