Il razzismo di ieri. Le guerre di oggi. E l'eterno bisogno di evasione. Il cineasta nero più potente d'America racconta cosa andremo a vedere. Colloquio con Denzel Washington

Da Hollywood con furore

Come regista, Denzel Washington non ha dubbi: al primo posto viene l'istruzione. Dopo 'Antwone Fisher', sul trionfo accademico di uno studente di colore, Washington dirige 'The Great Debaters', ispirato a una storia vera. Il film, che esce negli Usa in questi giorni, rispolvera una pagina gloriosa nella battaglia per i diritti civili in America: quando il Wiley College, una piccola università del Texas per studenti di colore, sconfisse negli anni '30 prestigiosi antagonisti 'bianchi' (inclusa Harvard) nel corso di una serie di dispute e 'gare' tra accademici. Al centro di 'The Great Debaters' c'è la vicenda del poeta e professore nero Melvin B. Tolson (Washington nel film) che prepara e guida una squadra di giovani 'dibattenti' verso la conquista del campionato nazionale nel 1935.

Washington, due volte premio Oscar (per 'Glory' e 'Training Day'), è candidato al Golden Globe per un ruolo ben diverso: quello del signore della droga e killer Frank Lucas, nel film 'American Gangster' di Ridley Scott, in cui recita accanto a Russell Crowe (sugli schermi italiani dal 18 gennaio). È uno degli attori più belli di Hollywood ma nessuno - tanto meno lui - sembra accorgersene: a 53 anni Washington, figlio di un pastore pentecostale, ha alle spalle 23 anni di matrimonio con Pauletta Pearson e quattro figli. Mentre i suoi coetanei sfoggiano fidanzate trentenni, lui vanta i successi del primogenito John David, 21 anni, che è stato appena acquistato dai Saint Luis Rams come giocatore professionista di football americano. Washington mette la famiglia, la stabilità, la paternità davanti a tutto il resto. Ed è così che vede il futuro del cinema. Come esperienza di insegnamento e crescita.

Signor Washington, tanti film quest'anno dedicati a temi sociali, alla guerra in Iraq. Pensa si tratti di un trend che continuerà?
"È inevitabile che quando gli sceneggiatori, i registi e gli studios si mettono a scrivere e decidere che film fare e che storie raccontare, vengono influenzati da quello che il Paese sta attraversando. Quindi nel 2008 il cinema affronterà ancora storie a forte sfondo sociale e politico, e la guerra, cioè il problema più sentito in America, verrà riflesso nel cinema. Ma allo stesso tempo la storia insegna che quando le cose vanno male la gente vuole distrarsi, sfuggire dalla realtà che li circonda: quindi i film di evasione, di cui Hollywood è maestra, continueranno, eccome".

Vede cambiamenti anche nel modo in cui il cinema verrà vissuto dal pubblico?
"I miei figli vedono film su computer, su dvd, su Internet, e non posso biasimare questi mezzi perché hanno aiutato a costruire il successo del cinema. Eppure non c'è nulla come l'esperienza di vedere un film al buio, in una grande sala, in mezzo ad altre persone, e so di non essere l'unico a sentire il suo fascino: quest'anno il cinema in America ha superato ogni record al botteghino, quindi continua a funzionare bene".

E le nuove tecnologie? Lei è un fan?
"Anche quelle penso che aumenteranno, il cinema digitale si espanderà sempre di più perché permette film visualmente più interessanti. Io preferisco lavorare con la pellicola, è più viva, più emotiva, ma tanti amano il digitale".

Cosa consiglia a Hollywood per il futuro?
"Tornare alle cose essenziali, sono il segreto del successo. Ai giovani direi di fare teatro prima di ogni altra cosa: teatro, teatro e teatro. E consiglio ai registi di prendere lezioni di recitazione. Aiuta a capire quello che gli attori cercano di ottenere. E a comunicare meglio con le proprie 'maschere'".

'The Great Debaters' insiste sull'importanza dell'istruzione, che in America è ancora oggi uno dei tasti più dolenti...
"Indubbiamente tutti noi, a partire dal governo, dovremmo fare molto di più per l'istruzione. La scuola, la cultura, non sono una priorità in questo Paese: finché la gente non scenderà in piazza per esigere un'istruzione migliore, non la avrà. È anche vero che vediamo solo i lati negativi della realtà, mai quelli positivi. Mio figlio ha frequentato uno storico liceo nero, dove tutti quelli che si diplomano finiscono in università di Ivy league, le migliori, ma questo non fa notizia. Fa notizia solo se i ragazzini in un liceo fanno a botte o portano a scuola droghe e pistole".

È per questo che ha voluto fare il film?
"Anche: spero che faccia capire che essere intelligenti, essere colti, è ok, che la parola, scritta e parlata, è 'cool': e del resto la musica hip hop, il rap, usano la parola come mezzo di espressione. Ho la speranza che in quel cinema buio ci sia qualcuno, magari un membro di una gang, che senta qualcosa in comune con i giovani del mio film e si senta ispirato a migliorare la sua vita. Per esempio uno come Henry, il ragazzo che nel mio film guida la squadra di 'dibattenti' del college, sarebbe finito in una gang se ce ne fossero state a quell'epoca, tanto era arrabbiato".

Il film mostra quanto sia stata dura la realtà di questo Paese per gli afro-americani, e lei non ci risparmia una scena di linciaggio molto crudele.
"Questo Paese è stato costruito su schiavitù e razzismo, ed è interessante proprio vedere come la gente ne sia uscita. Fa parte del messaggio del film ai giovani: qualunque siano le circostanze in cui si trovano non devono mollare, devono tenere la testa alta e guardare avanti. La scena del linciaggio riflette situazioni che si sono ripetute tante volte in quegli anni. Le esecuzioni erano popolari, e oggi non è diverso: basta vedere quanta gente abbia visto l'impiccagione di Saddam Hussein: se fosse stata messa su pay per view moltissime persone l'avrebbero comprata. Ho trovato una foto di quegli anni di un nero cui avevano dato fuoco: era seduto nel rogo, lo avevano castrato, impiccato e bruciato, e la gente posava di fronte a lui nella foto. È una triste verità che ancora solleva la sua brutta testa in questo paese. Per questo non ho voluto essere timido nell'affrontarla: è importante ricordarlo anche nel nostro cinema".

Quanto è cambiato oggi in questo senso?
"Gli incidenti di razzismo fanno notizia perché sono pochi, mentre 70 anni fa erano all'ordine del giorno. In università come Wiley avevano i migliori professori neri del paese, gente che parlava sette lingue ma non poteva insegnare nelle università bianche di Yale e Harvard. Ma purtroppo come tante malattie il razzismo è ereditario. È per questo che ho messo tanti bambini nel film: per far vedere come i bambini, neri e bianchi, imparano dai loro genitori, come in modo sottile certi atteggiamenti vengano passati da una generazione all'altra".

Pensa che la situazione delle minoranze, soprattutto degli afro-americani e delle donne, stia cambiando nel mondo del cinema?
"C'è più eguaglianza di fronte alla cinepresa, ma non nelle sale dove vengono prese le decisioni. Ci sono più donne, ma devono sempre rispondere all'amministratore delegato che in genere è maschio e bianco. Gli afro-americani hanno ancora una grossa scala corporativa da scalare, e siccome le donne sono sempre dietro agli uomini, per le donne afro-americane la scala è ancora più lunga. Ma questo è vero per tutte le donne, purtroppo".

Si sente più militante rispetto al passato?
"Come dico sempre ai miei figli, e come ho messo in una battuta nel film, 'fai quello che devi fare per fare quello che vuoi fare.' È militante questo? Se lo è, sono più militante che mai".

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