L’autista che cambia versione. I filmati che non quadrano. L’autopsia dubbia. Ecco le zone d’ombra nell’inchiesta su Raciti
Quando, dopo una serie di smentite e silenzi, il diciassettenne ultras finalmente ammette di avere lanciato il sottolavello di alluminio contro i poliziotti («Ma non ho colpito nessuno»), il sostituto procuratore per i minorenni Angelo Busacca sbotta: «Bravo, così ni consumasti (ci hai consumato, ndr) u’ campionato».
Parole facilmente profetiche per il torneo del Catania, duramente punito al suo primo anno di serie A per la violenza dei suoi tifosi sfociata, il 2 febbraio dello scorso anno, nella morte dell’ispettore Filippo Raciti: il momento più drammatico nella storia dello sport italiano. Sono una quindicina i teppisti catanesi finiti in carcere per gli scontri di quel giorno e per due di essi si profila l’accusa più grave: omicidio volontario. Ma proprio per la gravità che rappresenta l’uccisione di un funzionario di polizia e per il peso che ha avuto sull’immagine delle istituzioni, è necessario che le due inchieste per omicidio non abbiano zone d’ombra.
Retromarce e dietro-front Le indagini contro Antonio Speziale, 17 anni all’epoca dei fatti, e Daniele Micale, 21 anni (uno in comunità di recupero, l’altro detenuto) sono ormai concluse con le richieste di rinvio a giudizio. Ma l’esame completo degli atti svolti dagli inquirenti lascia diversi punti oscuri. A partire dalla retromarcia del Discovery della polizia, avvenuta proprio nel momento in cui Raciti si è accasciato a terra, gridando: «Mi manca l’aria, non respiro, aiutatemi». Interrogato più volte l’autista S. L., infatti, ha modificato la sua versione iniziale. Il guidatore del Discovery viene sentito in tre diversi momenti: la notte stessa, il 5 febbraio e l’8 maggio 2007.
Nel primo verbale afferma: «Mi ero appena fermato con il mezzo, che procedeva con lo sportello lato guida aperto per consentirmi di respirare, quando ho sentito un forte boato e ho visto l’ispettore Raciti, che era rimasto fuori dal mezzo, barcollare, tanto da essere sorretto dai colleghi. L’ho sentito lamentarsi che si sentiva male e gli mancava l’aria e subito dopo si è accasciato per terra». Due giorni dopo, il 5 febbraio, è più ricco di dettagli, anche se si contraddice una prima volta: «…Non mi sono assolutamente avveduto dove loro (Raciti e il collega Balsamo, ndr) si trovassero poiché vi era troppo fumo. Quindi, allo scopo di evitare che l’autovettura potesse prendere fuoco, mentre era in corso un fitto lancio di oggetti e si udivano i boati delle esplosioni, chiudevo gli sportelli ed innescata la retromarcia ho spostato il Discovery di qualche metro. In quel momento ho sentito una botta sull’autovettura ed ho visto Raciti che si trovava alla mia sinistra insieme a Balsamo, portarsi le mani alla testa». Ma la svolta arriva l’8 maggio: interrogato dai sostituti della procura per i minorenni Angelo Busacca e Silvia Vassallo, S. L. modifica completamente il suo racconto: «…A un certo punto ero costretto ad arrestare la marcia perché alle spalle vi era un altro Discovery posizionato per bloccare un cancello. Interveniva qualcuno dei colleghi, non ricordo se proprio Balsamo che mi guidava nella retromarcia. Una volta posizionatomi ho avuto modo di notare sulla sinistra appoggiato sui passamano che ci sono in prossimità degli ingressi della curva il Raciti che si portava le mani alla testa. Lo stesso si trovava all’incirca una decina di metri dietro di me. Successivamente Balsamo iniziò a battermi sulla macchina per farmi arretrare ancora…». «Davvero un deciso dietro-front anche nelle versioni processuali», contestano gli avvocati Giuseppe Li Pera e Grazia Coco, difensori di Speziale: «E, guarda caso, quest’ultima versione sembra incastrarsi perfettamente con la tesi dell’accusa». Che indica l’arma del delitto in un sottolavello divelto dai bagni del Cibali e scagliato contro i poliziotti «a mo’ di ariete».
L’arma del delitto Il lavello è stato esaminato ai raggi X dagli esperti del Ris di Parma guidati dal colonnello Luciano Garofano, che hanno sottoposto il blocco di alluminio a una serie di prove sperimentali contro un Dummy, un manichino di gomma rivestito dalla divisa che simula il bersaglio umano. Per 14 volte hanno scagliato il sottolavello contro il Dummy, in tutte le prove il manichino, se fosse stato un uomo, per il Ris sarebbe rimasto vivo. Così, dopo avere compiuto tutti gli esami, gli specialisti di Parma hanno concluso rilevando che «l’ipotesi dell’inidoneità (del sottolavello, ndr) sembra riunire maggiori elementi di probabilità».
Filmati incompleti Dubbi che non sono fugati neanche dai filmati dello scontro, prova documentale ritenuta “regina”. A riprendere i tafferugli sono tre telecamere, due collocate all’interno dello stadio per inquadrare il portone e il corridoio di uscita. La terza, la 20, posizionata dagli uomini della Digos a sorvegliare l’ingresso della Curva nord dal balcone di una casa di fronte allo stadio. La controlla direttamente un operatore delle forze dell’ordine. Ma la posizione delle telecamere fa sì che i filmati non mostrano mai l’impatto del sottolavello. Così su quelle immagini lo scontro è ancora aperto. Da una parte la perizia della Polizia scientifica di Roma che ha compiuto «una ricostruzione tridimensionale degli eventi, una ricostruzione filmata sferica dei luoghi e una ricostruzione con attori in movimento», compatibile con l’impatto. Dall’altra il Ris di Parma che ritiene «non idonea l’installazione delle telecamere per fini di polizia giudiziaria, con il conseguente verificarsi di inconvenienti, tra cui l’inquadratura di campi troppo vasti e spesso privi di interesse ai fini investigativi». C’è da aggiungere che gli originali contenuti negli hard disk delle telecamere non sono stati messi a disposizione del Ris e neanche della difesa. Agli atti c’è anche una perizia realizzata a Torino dall’esperto di cinema Lorenzo Crespo, su richiesta del legale Giovanni Adami, difensore di un gruppo di ultras arrestati sempre per gli scontri del 2 febbraio 2007. Nel documento si parla apertamente di «manipolazione», dopo avere rilevato, «il tempo dei filmati originali non consegnato dalla polizia alla difesa, per la telecamera nr. 8 (quella utilizzata manualmente) è di circa 22 minuti e 57 secondi». Un buco notevole, frutto, secondo il perito, di «manipolazione, anomalie e fotogrammi con scene a metà».
Dubbi sull’autopsia Nella relazione depositata in Procura, si legge infine che «dall’incrocio delle riprese dei filmati delle due telecamere è stato accertato che al momento del lancio del sottolavello non era presente la polizia davanti al portone e la posizione del sottolavello era rivolta verso l’alto». Eppure quei filmati “inchiodano” secondo l’accusa, i due ragazzi arrestati anche sulla base delle ultime parole pronunciate da Raciti ormai morente all’orecchio dell’agente Balsamo: «Fagliela pagare a quel bastardo, quello robusto, quello della Dnr (un gruppo di ultras)». Un tifoso evidentemente riconosciuto da Raciti, ma mai arrestato per l’omicidio. Ma il dato che solleva più domande arriva dall’autopsia, eseguita in modo approssimativo, secondo la controperizia di Carlo Torre, senza esaminare il collo e le vie della respirazione, soprattutto i polmoni. Colpito, secondo l’accusa, dal sottolavello alle 19,06, con quattro costole rotte e una vistosa emorragia al fegato l’ispettore continua a garantire l’ordine pubblico guerreggiando con gli ultras sino alle 20,25, ora in cui si accascia per terra. Come ha fatto Raciti a resistere per così tanto tempo senza lamentarsi e avvisare i colleghi?